Attualità - 04 agosto 2019, 09:00

Dillo al Prof: la Cina: un mondo chiamato con i nomi più vari, vasto e ricco, in passato

La chiave, Ça va sans dire, questa volta è stata la musica. Evidentemente non c’è divario che la bellezza non possa valicare.

Dillo al Prof: la Cina: un mondo chiamato con i nomi più vari, vasto e ricco, in passato

Appresso i Chini gli elementi sono cinque, né appresso loro è lecito di dubitarne. Così li numerano: il metallo, il legno, il fuoco, l’acqua e la terra, e quel che è più intollerabile dicono che uno nasce dall’altro”; in questo modo una cronaca del viaggio di Matteo Ricci in Cina descrive una mentalità che il missionario del sedicesimo secolo avrebbe fatto loro superare sostituendola con quattro elementi, inclusa l’aria, che laggiù sarebbe stata considerata come vuoto.

Al di là di citazioni di Battiato sui gesuiti euclidei, e di osservazioni su come le due dottrine non fossero ovviamente compatibili con la scienza moderna, abbiamo in realtà l’intuizione di un punto di vista differente, appunto ‘intollerabile’: la trasformazione.

E poi quel vuoto, disposto ad accogliere.

La Cina: un mondo chiamato con i nomi più vari, vasto e ricco, in passato.

Non entrò in contatto diretto con la civiltà romana forse anche perché ai Persiani faceva comodo fare da intermediari, quando la seta andava a rivestire le spendaccione matrone occidentali. Di recente però pare che stiano scoprendo il diritto romano, e che importino là nostri studiosi: alla lunga i due imperi si sono toccati.

Ma nei secoli passati eravamo come su diversi pianeti.

Un lontano Katai nel quale si potevano collocare leggende, da uomini deformi a misteriosi re cristiani pronti a soccorrere un’Europa in crisi, là dove le grandi giunche avevano vele triangolari e stiva a prova di affondamento, ma non anelavano a invadere i margini della terra sentita come centro del mondo; dove la polvere da sparo, la carta e chissà quante altre diavolerie erano nate, senza innescare una rivoluzione produttiva, dove una muraglia immensa aveva stabilito un confine fra la civiltà e la barbarie minacciosa.

Seguirono la strafottente supremazia europea e le ribellioni esasperate.

E poi gli anni settanta del secolo trascorso, che ci fecero immaginare un comunismo, sì’, ma non ingrigito dalla burocrazia sovietica, fino a che Finardi cantò che forse il Paradiso non abitava da quelle parti.

Ci restò la culla di arti marziali cinematografiche, a volte inneggianti alla voglia di libertà dalla prepotenza occidentale, o da quella giapponese.

In seguito i ristoranti, sparuti in un primo tempo, poi i negozietti di ‘cineserie’. Ma oggi lo sappiamo tutti: là vive il drago che estende la sua ombra sull’Africa, e qua uno spruzzo dei suoi miliardi di abitanti conquista lentamente e tenacemente spazio. Aprono negozi dove lavorano silenziosi e tenaci, accumulano risparmi per i figli, servono con garbo.

Non molto dissimili dai liguri di qualche decennio fa, quando la corsa all’arricchimento facile era da venire e la voglia di lasciare qualcosa ai discendenti piegava loro la schiena sui colli conquistati a forza di muretti a secco. Ma alla fine in che cosa differisce un cinese da un occidentale?

Dal bene al male, dalla medicina tradizionale alla mafia, potremmo trovare mille analogie. La differenza sta nelle radici; certo oggi siamo accomunati dai prodotti tecnologici, ma la linfa non è introdotta dalle diverse civiltà del passato.

Un testo che ci può essere di grande aiuto è ‘Essere o vivere’ di François Jullien, filosofo e autorevolissimo conoscitore del pensiero cinese. Questo testo è suddiviso in capitoli, ognuno dei quali altro non fa che opporre concetti simili ma differenti.

L’immagine che forse riassume il tutto è quella del semaforo; al posto di una precisa regolazione di chi passa, in asia assistiamo a un flusso ininterrotto di persone che però fanno spazio al percorso altrui. Insomma una visione meno razionalistica, più protesa a favorire un qualcosa in atto, vivo e ineluttabile ma non per questo non influenzabile.

Non scomponibile in schemi che ci diano il potere di ottenere quanto pianificato. Ovviamente potremmo riandare a nostri antenati altrettanto attenti alla complessità del reale. Ma tant’è, lo stato della situazione permette una comoda contrapposizione fra occidentali e orientali su questa direttiva.

Siamo dunque destinati a incontrare difficoltà nel capirci?

Un libro dal percorso opposto ci indica tutt’altro: non un occidentale che ha approfondito quella cultura bensì una cinese che fin da bambina ha amato un aspetto della civiltà europea, e ne ha saputo trarre spunti per conciliare armoniosamente (è davvero il caso di dirlo) la perle di tradizioni tanto lontane, unite da fili misteriosi, più sottili e luminosi della stessa seta che ci hanno fatto amare.

Si tratta di ‘Il pianoforte segreto’: l’autobiografia di una pianista classica, oggi rinomata nel mondo soprattutto per la sua interpretazione delle variazioni Goldberg di Johann Sebastian Bach.
Già, variazioni, un tema che si trasfigura mostrando potenzialità insospettabili attraverso il genio insuperato che apponeva la sigla ‘Soli Deo Gloria’ (indirizzando il rpestigio al solo Dio) a capolavori che richiedevano oltre a una sensibilità struggente un’intelligenza geometrica impareggiabile.

Zhu Xiao-Mei fin da bambina si era dedicata al pianoforte, ma la rivoluzione culturale aveva aggredito ogni rapporto con l’occidente, sospettato di inculcare valori controrivoluzionari.

Il suo strumento fu così coperto da un panno per sembrare un innocuo mobile, la sua giovane mente venne travolta dall’ideologia (che poi in occidente aveva visto la sua nascita, poi resa asiatica là).
La sua tenacia e tanti incontri, eventi, spostamenti, le hanno però alla fine regalato una pace del cuore che ci comunica con al cordialità cara alla sua tradizione.

Fra citazioni di Hugo, Flaubert o Goethe, elogi di compositori occidentali, vicende personali travagliate, fioccano, perfettamente incastonate, gemme della tradizione natale dell’artista, da Confucio a Lao tzu.

A quest’ultimo dobbiamo questa osservazione, che a chi ha qualche primavera potrebbe ricordare una canzone di Claudio Rocchi: “Apriamo porte e finestre nelle pareti di una stanza, sono queste aperture a rendere utile la stanza”.

La chiave, Ça va sans dire, questa volta è stata la musica. Evidentemente non c’è divario che la bellezza non possa valicare.  

 

Giovanni Peirone è nato ad Albisola il 4 ottobre 1961, risiede a Imperia. Insegnante di Religione Cattolica dal 1989 al 2006, in seguito di Lettere, attualmente presso l’IIS Ruffini di Imperia. Ama la musica e compone da autodidatta canzoni, lacune delle quali sonos tate eseguite nelle rassegne letterarie 'Cervo in blu d'inchiostro', 'Cervo ti strega' e... (la tua), apprezza i fumetti che considera una forma d’arte, ha presentato un paio di libri per la rassegna ‘Cervo in Blu d’inchiostro’, si occupa da anni dell’integrazione degli studenti stranieri e segue il gruppo musicale degli alunni del suo istituto insieme a dei colleghi. Tifa per il software open source e fa parte del gruppo degli admin del gruppo di FaceBook ‘Sei di Imperia se’, che conta oltre 11.000 iscritti.

Redazione

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