Al Direttore - 15 novembre 2016, 13:04

Le Caserme dei Carabinieri di Imperia intitolate a Pietro Somaschini e quella di Sanremo ad Aimone Gerbi: il racconto di Andrea Gandolfo

Somaschini è stato valoroso carabiniere caduto novant’anni fa in un’imboscata a Camporosso insieme a un altro milite dell’Arma.

Le Caserme dei Carabinieri di Imperia intitolate a Pietro Somaschini e quella di Sanremo ad Aimone Gerbi: il racconto di Andrea Gandolfo

Forse non tutti sanno che la caserma dei Carabinieri di Sanremo è intitolata a un valoroso carabiniere caduto novant’anni fa in un’imboscata a Camporosso insieme a un altro milite dell’Arma, a cui è tra l’altro intitolata la caserma del Comando provinciale di Imperia. Per rinverdire un po’ la memoria ai lettori su quel lontano episodio e far conoscere al pubblico i titolari delle caserme dei comandi dell’Arma di Sanremo e Imperia, lo Storico Andrea Gandolfo invia un suo contributo, che riassume le ultime vicissitudini del carabiniere Lodovico Aimone Gerbi e del vicebrigadiere Pietro Somaschini:

"Quest’anno cade il novantesimo anniversario della morte del carabiniere Lodovico Aimone Gerbi, assassinato da alcuni malviventi a Camporosso nel dicembre 1926 insieme al vicebrigadiere Pietro Somaschini. Nel 1971 gli è stata intitolata la nuova caserma dei carabinieri di Sanremo, meglio nota anche come «Villa Giulia», mentre al vicebrigadiere Somaschini era già stata dedicata molti anni prima la caserma del Comando provinciale di Imperia.

Lodovico Aimone Gerbi era nato a Rocca d’Arazzo (Asti), l’11 marzo 1904. Nell’autunno del 1926 Gerbi prestava servizio, insieme ad altri otto militari dell’Arma, presso la stazione di Dolceacqua. Il 5 dicembre di quell’anno, a Ventimiglia, era stato ucciso da due banditi il fascista venticinquenne Giovanni Battista Gavarino, originario di Monesiglio, nel Cuneese, già addetto di garzone presso il buffet della stazione della città di confine, e da qualche tempo usciere presso il consolato generale italiano a Nizza. Per le modalità che avevano caratterizzato il delitto, gli inquirenti ne avevano escluso immediatamente il movente politico, facendosi l’idea che gli autori dell’omicidio fossero malviventi giunti a Ventimiglia con l’intenzione di varcare illegalmente la frontiera per recarsi in Francia.

    In effetti, la polizia avrebbe appurato che gli assassini di Gavarino erano stati i famosi banditi Sante Pollastro e Martino Massari, detto «Martin», i quali, pochi giorni prima dell’omicidio del giovane fascista piemontese, avevano freddato a Milano due sottufficiali dei carabinieri. Dal comando della tenenza di Ventimiglia venne quindi disposto che fossero intensificati i servizi di vigilanza svolti dai militari dell’Arma per impedire il passaggio illegale della frontiera.

    La sera del 6 dicembre, e la mattina dopo, fu segnalata la presenza di due individui sospetti in val Nervia, per cui vennero allertate le stazioni di Ventimiglia, Dolceacqua e Pigna. Dalla stazione di Dolceacqua furono inviati, in abito simulato, con l’incarico di controllare il territorio circostante tra le 19,30 del 7 dicembre e le 0,30 del giorno successivo, il carabiniere Lodovico Aimone Gerbi e il vicebrigadiere Pietro Somaschini, della stazione di Olivetta San Michele, da pochi giorni in servizio provvisorio a quella di Dolceacqua.

    Dal rapporto inviato l’11 dicembre 1926, quattro giorni dopo i fatti, dal generale di brigata Giovanni Battista Da Pozzo, al Comando generale dell’Arma, si apprende che nelle prime ore del mattino dell’8 dicembre il maresciallo Florindo Pizzoglio, comandante della stazione di Dolceacqua, rientrato da un servizio di perlustrazione nella direzione opposta a quella percorsa da Gerbi e Somaschini, dopo essere stato informato dal piantone della caserma che questi non erano ancora tornati, diede scarsa importanza alla cosa, pensando a un normale ritardo dovuto a ragioni di servizio. Ma poche ore più tardi, preoccupato dal prolungamento dell’assenza dei due militari, ordinò di farli cercare presso alcune località limitrofe, recandosi lui stesso nella zona di Camporosso, senza trovare però nessuno. Il maresciallo decise quindi di informare del mancato rientro dei due, il comandante della tenenza, che dispose ulteriori ricerche, ma senza alcun risultato.

    Soltanto verso le tre del pomeriggio, un contadino, sceso in una scarpata costeggiante la strada di Camporosso, nei pressi del cimitero del paese, a circa due chilometri dall’abitato, scoprì i cadaveri dei due militari, che avevano ancora addosso gli indumenti da caccia usati la sera prima per camuffarsi, immersi in una pozza di sangue e crivellati di ferite prodotte con armi da fuoco. Dalle impronte rimaste sul terreno, gli inquirenti dedussero che tra i malviventi e i due carabinieri vi fosse stata una violentissima colluttazione, specialmente ai danni di Gerbi, che, oltre alle ferite causate dalle armi, presentava profonde contusioni al collo e svariate ecchimosi. A terra furono rinvenuti inoltre otto bossoli, di cui quattro di cartucce dello stesso calibro di quelle con cui era stato ucciso il fascista Gavarino, e le altre di calibro 6,35, sparate da un’arma automatica. Al vicebrigadiere Somaschini, ucciso con un colpo di rivoltella alla nuca, era stata anche sottratta la pistola d’ordinanza, mentre a Gerbi, freddato con un colpo in fronte, i banditi avevano prelevato una Browning calibro 6,35, che gli investigatori non riuscirono ad appurare come il militare si fosse procurato, ma di cui si era verosimilmente impossessato per gli speciali servizi che doveva espletare. La tragica fine dei due militari avrebbe prodotto inoltre una notevole impressione presso l’opinione pubblica locale, suscitando un particolare allarme tra gli abitanti della zona.

    Vennero quindi rinforzate, anche con militari inviati dal comando di legione a Genova, tutte le stazioni di confine e col concorso delle truppe di vari presidi del circondario e della Milizia delle città vicine. Mentre erano ancora in corso le indagini per scoprire gli assassini dei due militari, il carabiniere Tommaso Brondolo, verso le sette di sera del 9 dicembre, durante il servizio che svolgeva ogni giorno, insieme ad altri cinque militari dell’Arma, alla stazione di Ventimiglia, per impedire gli espatri clandestini sui treni diretti in Francia, vide un individuo sospetto salire su un convoglio in procinto di partire. Rivoltella alla mano, Brondolo raggiunse il vagone cui si era aggrappato lo sconosciuto, che sarebbe stato identificato in seguito in Sante Pollastro. Saltato sul predellino, Brondolo intimò a Pollastro di scendere dal treno, ma venne centrato da quest’ultimo all’addome con due colpi di pistola, cadendo riverso al suolo a venti metri dalla tettoia della stazione, mentre il treno accelerava, cominciando a prendere velocità. Successive perquisizioni eseguite sul convoglio da dove erano partiti gli spari, non avrebbero permesso agli inquirenti di verificare subito l’identità dell’assassino di Brondolo, così come sarebbero state parimenti infruttuose le indagini svolte da carabinieri e militi della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, sulla linea Ventimiglia-Mentone, oltreché lungo le strade di accesso al confine.

    Il generale Da Pozzo scriveva peraltro, nel rapporto inviato al Comando generale dell’Arma, come tutto facesse pensare che il delitto consumato alla stazione di Ventimiglia fosse stato commesso da uno degli stessi autori dell’omicidio di Gerbi e Somaschini a Camporosso. Nel pomeriggio del 10 dicembre, intanto, sarebbe stata inoltre scoperta, vicino a un binario della stazione di Ventimiglia, una bomba a mano di fabbricazione straniera, che, data la sua particolare collocazione, era stata probabilmente lasciata in quella posizione per provocare una strage. Sembra tuttavia probabile che la bomba rinvenuta nello scalo intemelio sia stata abbandonata in quel luogo dallo stesso Pollastro prima di salire sul treno, semmai a scopo intimidatorio. Nel frattempo il carabiniere Brondolo, dopo essere stato sottoposto a un delicato intervento chirurgico che non avrebbe ottenuto i risultati sperati, esalava l’ultimo respiro nel pomeriggio dello stesso 10 dicembre presso l’ospedale della città di confine. Dopo i fatti di Ventimiglia e Camporosso, Pollastro, dopo aver raggiunto Parigi, sarebbe stato arrestato nella capitale francese nell’agosto 1927, e poi, dopo essere stato estradato in Italia, condannato all’ergastolo dalla corte d’assise di Milano il 20 novembre 1929 per una serie di reati, tra cui l’omicidio di Gavarino a Ventimiglia, ma non per quello di Gerbi e Somaschini. Scontati quasi trent’anni di carcere, il bandito venne infine graziato nell’agosto 1959 dal presidente della Repubblica Giovanni Gronchi. Morì a Novi Ligure il 30 aprile 1979, all’età di 79 anni. Il suo complice sembra invece che si sia suicidato in Francia pochi giorni dopo la morte dei due carabinieri a Camporosso.

    Per l’eroico comportamento tenuto nel corso della colluttazione con i malviventi della banda Pollastro che gli sarebbe stata fatale, Lodovico Aimone Gerbi venne quindi decorato, con regio decreto emesso l’8 gennaio 1928, con una medaglia d’argento al valor militare alla memoria, che fu così motivata: «Animato da elevato sentimento del dovere e da nobile zelo, rinunciando al riposo che gli spettava di diritto, per servizi precedentemente compiuti, si offriva per essere comandato per la ricerca di pericolosi malfattori, autori di gravi delitti contro la persona. Incontrati nella notte i latitanti, li affrontò con coraggio e risolutezza, soccombendo nella lotta che ne seguì». Analoga decorazione sarebbe stata assegnata anche al vicebrigadiere Pietro Somaschini, con la seguente motivazione: «Rientrato in caserma da lungo e faticoso servizio perlustrativo compiuto per tentare la cattura di pericolosi malfattori, autori di gravi delitti contro la persona, saputo che per lo stesso scopo dovevano essere subito riprese le ricerche, animato da elevato sentimento del dovere e da nobile zelo, si offriva per riprendere immediatamente servizio. Incontrati nella notte i latitanti, li affrontò con coraggio e risolutezza, soccombendo nella lotta che ne seguì».

    Nel settembre 1971 il Comando della Legione Carabinieri Liguria ha proposto al Comando generale dell’Arma di intitolare la costruenda caserma della compagnia di Sanremo al carabiniere Lodovico Aimone Gerbi, che venne autorizzata il 9 novembre 1971 dal capo di Stato maggiore dell’Arma, generale Arnaldo Ferrara.

Dott. Andrea Gandolfo – Sanremo”.

Redazione

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