Il contesto in cui si verifica il trasferimento del lavoratore è normalmente quello delle medio-grandi imprese. In particolare, questo tipo di realtà produttive consente di sviluppare diverse articolazioni autonome (c.d. unità produttive: ad esempio stabilimenti o negozi) di una stessa impresa in un più o meno vasto territorio geografico.
Come già osservato in passato, la disciplina prevista per i rapporti di lavoro subisce sensibili differenze rispetto alle tipiche regolamentazioni dei contratti del Codice Civile.
In particolare, rispetto a quanto generalmente disposto dall’art 1182 Cod. Civ., nel contratto di lavoro l’imprenditore può modificare il luogo previsto per l’adempimento del lavoratore anche nel momento di esecuzione della prestazione, e cioè in una fase successiva alla stipulazione iniziale.
Nuovamente, la facoltà appena evocata è da ricondursi all’esercizio del potere direttivo del datore di lavoro, del quale abbiamo ampiamente discusso negli appuntamenti precedenti.
Tuttavia, nel caso specifico, gli effetti dello spostamento del luogo di lavoro possono avere ampie conseguenze anche sulla stessa organizzazione della vita privata del lavoratore.
A tal proposito, l’art 2103 Cod. Civ., dopo l’emanazione dello Statuto del lavoratori (l. 300/1970) prevede che il trasferimento di un soggetto da una unità produttiva ad un’altra sia giustificato solo alla presenza di comprovate ragioni tecniche , organizzative e produttive.
Si comprendono sia la finalità di evitare che il datore di lavoro eserciti in modo arbitrario una facoltà la legge gli riconosce, sia di limitarne, come già detto, le ricadute negative sulla sfera personale del lavoratore.
A tal proposito, in caso di mancanza dei requisiti appena indicati, il provvedimento di trasferimento è da considerarsi nullo, col contestuale obbligo di riassegnare il lavoratore alla posizione di origine.
Inoltre, ne deriva ulteriormente, che in caso di azione giudiziaria da parte del lavoratore, sarà il datore di lavoro a dover dimostrare la presenza delle ragioni a giustificazione della propria decisione (subirà, cioè, l’onere della prova).
In particolare, le disposizioni di legge che stiamo esaminando vengono integrate dalla contrattazione collettiva, che può imporre ulteriori vincoli al trasferimento del lavoratore, a cominciare dalla frequente richiesta della forma scritta del provvedimento.
Inoltre si possono prevedere vincoli procedurali (per rendere più complicato l’iter) o sostanziali ( come l’esclusione di talune categorie di soggetti), o, ancora, si possono prevedere alcuni sostegni di carattere economico per i destinatari.
Le ragioni di questa forte regolamentazione, integrata dal ruolo delle parti sociali, sono motivate dal fatto che se non vi fossero le limitazioni previste, il trasferimento potrebbe essere utilizzato come forma di ricatto, dilatando in modo insopportabile il già ampio divario che separa la condizione dell’imprenditore da quella dei prestatori di lavoro.
Tuttavia, se da un lato è ben ferma la necessità di evitare pratiche di “terrorismo psicologico”, ad esempio per costringere i lavoratori alle dimissioni, d’altro canto il potere di accertamento dei giudici, rispetto al menzionato provvedimento, non può spingersi fino a valutare il merito delle scelte del datore di lavoro.
Infatti il giudice deve solo verificare la presenza delle comprovate ragioni richieste dalla legge per poter ricorrere al trasferimento, senza però poter contestare il modo in cui l’imprenditore decide di organizzare le sue risorse. In sostanza, nel contesto specifico, non si ritiene giustificata una intromissione del potere giudiziario nella libera iniziativa economica privata (cfr. Art. 41 Cost.) fintanto che l’imprenditore dimostri di rispettare la legge, non potendosi imporre questa o quella soluzione organizzativa.
L’elasticità dei criteri coi quali la giurisprudenza affronta questo tipo di controversia si riafferma anche nell’interessante caso dei trasferimenti per incompatibilità ambientale.
Infatti, in linea generale, leggendo in combinato disposto gli artt. 2103 Cod. Civ. e 7 l.300/1970 il trasferimento del lavoratore non può mai essere giustificato per fini di carattere disciplinare sanzionatorio. Tuttavia è spesso possibile ricondurre ad una ragione di carattere organizzativo (e quindi rientrante in quelle di cui all’art. 2103) il comportamento soggettivo del lavoratore.
Si pensi ad esempio ad un atteggiamento che, indirettamente, minacci il buon andamento dell’attività dell’impresa e che quindi, per ragioni produttive (e non direttamente disciplinari) giustifichi un provvedimento di trasferimento.
Allo stesso tempo, va considerato però quanto disposto dall’art 15 dello Statuto del lavoratori in materia di divieto di discriminazione.
Infatti è bene tenere a mente che non potrebbe mai essere consentito un trasferimento la cui motivazione determinante risultasse riconducibile a questioni sessuali, razziali, politiche, sindacali, ecc ecc; quindi mosso dalla generale finalità di arrecare un danno al soggetto destinatario del provvedimento.
Ad esempio sono previste discipline più stringenti per il trasferimento di soggetti portatori di handicap o, diversamente, per i dirigenti delle rappresentanze sindacali aziendali (decisamente più esposti di altri a eventuali pratiche ritorsive della dirigenza aziendale).
Il trasferimento non va confuso con la trasferta che invece riguarda l’assegnazione, fin dall’inizio a titolo provvisorio, di un lavoratore in un luogo diverso da quello abituale di lavoro. In questo specifico ambito l’esigenza organizzativa che giustifica lo spostamento del lavoratore avrà carattere transitorio.
L’istituto della trasferta viene disciplinato dettagliatamente dai contratti collettivi.