“Soldati di terra e di mare, l’ora solenne delle rivendicazioni nazionali è suonata. Seguendo l’esempio del mio grande avo, assumo oggi il Comando supremo delle forze di terra e di mare, con sicura fede nella vittoria, che il vostro valore, la vostra abnegazione, la vostra disciplina sapranno conseguire…”
Si apriva così il proclama che Sua Maestà Vittorio Emanuele III indirizzò al popolo italiano il 24 maggio 1915, all’indomani della dichiarazione di guerra consegnata agli ambasciatori di Austria e Germania. Quello stesso giorno un milione e trecentotrentanovemila italiani, vennero mobilitati. Tra questi c’era il fante sanremese Giuseppe Bogliolo. Un soldato pacifista.
Che rischiò la fucilazione, ma armato di pala e picco contribuì a salvare molte vite e da ultimo venne decorato con la medaglia di bronzo e la croce di guerra. Senza aver sparato un solo colpo di fucile. Una storia molto particolare che oggi è finita nelle sale di un museo sulla prima Guerra mondiale sulle Dolomiti (www.cortinamuseoguerra.it.) ed è emersa dall’oblio grazie agli sforzi congiunti di una pronipote e di una figlia.
Andiamo con ordine. E vediamo le parti, in questa bella pagina di storia patria fatta di lavoro, pacifismo, coraggio, e amore. Amore per la coltivazione di quelle memorie di famiglia che spesso si intrecciano con la Grande Storia. La pronipote è Brigida Melga, residente a Milano, con radici sanremesi, 36 anni, tecnico di una multinazionale. E’ lei che ha dato la stura al vento dei ricordi, per far riemergere, dopo tanti anni la storia di Giuseppe Bogliolo.
“Tutto è nato per caso – spiega Brigida – l’estate scorsa, quando sono stata in visita al museo Della Grande Guerra, allestito all’interno del Forte dei Tre Sassi, a Cortina d’Ampezzo. Un posto unico, dove rivive la storia della grande guerra, attraverso le testimonianze dirette dei protagonisti. Di quelli che stavano in trincea, sfidando la morte, il nemico e il terribile clima dell’inverno alpino. Di ritorno ho insistito con mia nonna, perché mettesse per iscritto quello che tante volte mi aveva raccontato: l'esperienza di suo padre (mio bisnonno) durante la prima guerra mondiale”.
La nonna è Maddalena Bogliolo. Classe 1926. Meglio nota a Triora, di dove è originaria parte della famiglia, come Nuccia del Manè. Nonna Maddalena non si è fatta molto pregare. Ha la penna facile, aiutata da una straordinaria lucidità e da una cultura che è patrimonio della scuola italiana degli anni trenta e quaranta, suffragata da letture assidue e dalla quotidiana guerra con le parole crociate. Collabora da tempo alle “Stagioni di Triora”, pubblicazione edita dalla pro loco ed ha recentemente consegnato alle stampe il suo secondo libro. Proprio per la Stagioni di Triora, l’anno scorso, Maddalena Bogliolo aveva scritto una ventina di righe sotto il titolo:”La guerra di mio padre (1915-1918)”.
Loris Lancedelli, ideatore e curatore del museo ampezzano, appena ricevuto il testo da Brigida Melga così le ha risposto: “Buongiorno la ringrazio della preziosa testimonianza, anche questo materiale che mi ha mandato va ad arricchire il patrimonio storico del museo, e sarà nostra cura conservarlo e divulgarlo."
Abbiamo incontrato nonna Maddalena,nei giorni scorsi, nella sua casa di via Asplanato Siccardi, nella città dei fiori. E allora sono riaffiorati tanti, tanti, altri ricordi della storia di un fante. Di un sanremese. Di suo padre. “Mio padre al momento della leva era stato dichiarato rivedibile. Ma con l’entrata in guerra venne richiamato, come tutti quelli della sua classe. Era del 1889. Aveva compiuto i 26 anni da appena 7 giorni quando andò al fronte. Qualche giorno prima però, nella sua prima licenza, a Sanremo, si era fatto fare una foto in divisa. Qui era nato il 16 maggio 1889. Prima della sua avventura militare faceva il muratore, insieme al padre che era anche un ottimo pavimentista. L’impresa di famiglia era specializzata però in un’attività molto importante per la Sanremo di quel tempo che stava incrementando la sua attività floricola. I Bogliolo erano richiestissimi per la realizzazione di vasche irrigue per la floricoltura, realizzate, con molta cura, in cemento armato, anche in luoghi impervi, livellando il terreno pietroso, con pala e picco.”
Con quale animo partiva per il fronte? “Non sgomitava come quelli esaltati dal clima di quell’epoca, che era percorsa dalla rivendicazione delle terre irredente. Mio padre era un pacifista convinto. E comunque, sentiva il suo dovere di italiano, partì. Dovette andare, con il suo 42° reggimento di fanteria, subito in prima linea: sul Pasubio, sull’altipiano di Asiago e sul Carso, sempre in trincea, con i nemici a poca distanza. Li sentivano parlare, ridere ed imprecare” E in trincea avvenne il fattaccio, che per poco non lo portò davanti al plotone di esecuzione… “Eh si ci mancò davvero poco, ma la vita a volte apre la porta giusta per dare ad ognuno il suo posto. Papà mi raccontò che da giorni e giorni interminabili erano in trincea, esposti a tutte le intemperie, con il fango fino alle ginocchia, attaccati da malattie infettive, da pulci e da pidocchi: una situazione terribile, insostenibile. Anche il cibo quando arrivava sulla linea, in montagna, era freddo, immangiabile, dava sostentamento, ma non serviva a combattere il freddo terribile che c’era lassù.
Mio padre si rese conto che non poteva continuare in questo modo, e un giorno, esasperato, buttò il fucile nel fango e disse ai suoi compagni di trincea che se ne sarebbe andato. Al che quelli lo invitarono a non parlarne nemmeno: “Lo sai che ti fucilano?” E mio padre: “Meglio fucilati che fare questa vita!” E se ne andò”. Cosa accadde? “Qui entrò in gioco il destino, con le sembianze di un tenente medico. Questi, che conosceva mio padre e la sua abilità di muratore ligure, dirigeva un piccolo ospedale da campo subito dietro la prima linea. Aveva in quel momento un grosso problema, doveva assolutamente ampliare, alla svelta, per curare più feriti, l’area di ricovero, ma alcune grosse rocce impedivano l’allargamento. I pochi raccomandati, che lavoravano nelle retrovie, per imperizia, non riuscivano a fare il lavoro.
L’ufficiale appena vide arrivare mio padre, gli parve la manna dal cielo; in poche parole il medico gli spiegò la situazione: aveva bisogno di qualcuno che spaccasse alcune grosse rocce, in modo da poter allargare lo spazio e sistemare qualche lettino in più e poter così ricoverare un maggior numero di feriti. Mio padre, avuto un piccone, attaccò le rocce dal verso giusto ed in poco tempo lo spiazzo fu pronto.Il giorno seguente, alcuni ufficiali vennero a cercarlo, ma il tenente medico disse loro che se gli toglievano lui potevano chiudere tutto, perché lì era l’unico che sapesse lavorare; al che gli ufficiali se ne ritornarono di dove erano venuti e mio padre rimase al suo posto, di supporto alla postazione medica, in prima linea” Ma non credo che per questo gli avessero dato le decorazioni di cui mi ha parlato… “Papà era un pacifista. Ma non un codardo e qualche tempo dopo lo dimostrò.
Capitò infatti che un nostro soldato ferito, rimanesse sotto il fuoco degli austriaci e fosse da recuperare. Ma nessuno voleva andare. Si offrì mio padre che, infilatosi l’elmetto, si avviò nello spazio aperto al di là della trincea, sotto lo scoppio delle granate. Una pallottola gli sfiorò l’elmetto, che squarciandosi gli ferì la testa, e il sangue, che scorreva abbondante, gli inondò il viso, per cui poteva, solo a malapena, vedere dove andasse. Più che altro lo aiutarono i lamenti del compagno ferito. Così rintracciò il commilitone, se lo caricò sulle spalle, e lo riportò in salvo nelle nostre linee. Entrambi vennero ricoverati nell’ospedaletto da campo. Dopo qualche tempo fu mandato a casa in convalescenza. Ma per quel suo atto di valore, visto da tutti, fu decorato con la medaglia di bronzo e la croce di guerra”.
Quindi guerra finita per il fante Giuseppe Bogliolo? “Per la ferita riportata e l’atto di valore compiuto non ritornò più al fronte, ma fu mandato alle industrie Ansaldo di Genova Sampierdarena. Qui venne assegnato al reparto che produceva le corazze delle mitragliatrici. Vi rimase circa due anni. A guerra finita, alle soglie del 1919, Giuseppin, con un sacco in spalla e la sua divisa di fante, tornò nella casa di via Tasciaire, oltre il ponte in legno, che i Bogliolo avevano edificato, lungo un piccolo affluente del torrente San Francesco, accolto con grandi feste dai genitori e dai sette tra fratelli e sorelle. Quasi ottantenne ebbe, come tutti i reduci ancora in vita, una piccolissima pensione di 5000 lire mensili e fu nominato Cavaliere di Vittorio Veneto. Ma credo che la sua principale soddisfazione fosse quella di poter asserire di non aver mai sparato un colpo e di essere quindi sicuro di non aver mai ucciso nessuno.”