Proseguendo nella disamina delle vicende storiche dei comuni della provincia di Imperia, lo storico Andrea Gandolfo invia una breve trattazione della storia del borgo di Carpasio, in valle Argentina, un paese ricco di fascino e tradizioni. Ecco il suo racconto:
In base ai reperti di natura archeologica pervenuti fino a noi, è possibile avanzare l’ipotesi che il territorio di Carpasio fosse abitato da tribù locali di agricoltori e pastori già nell’epoca preromana, come attesterebbe la presenza in loco di un antico insediamento su un’altura situata sopra l’attuale Santuario di Nostra Signora di Ciazzima, che viene ancora oggi denominato in dialetto Rocca Castè, dove è presumibile che esistesse in età protostorica un castellaro costruito dai primi abitanti della zona per fini prevalentemente difensivi, data anche la sua relativa vicinanza con la fascia costiera. Molto antica è anche una lastra in pietra locale, conficcata nel suolo e circondata da un cerchio di piccoli massi, che potrebbe essere stata eretta in età protostorica, data anche la sua somiglianza con i menhir preistorici ubicati nella contigua Valle Argentina presso il passo della Mezzaluna, mentre, in località Prati Piani, esistono i resti di una costruzione realizzata in comune pietra locale riconducibile alla tipologia dei dolmen, che potrebbe essere databile ad un periodo molto antico, anche se non se ne può escludere un riutilizzo più recente come ricovero temporaneo di pastori. Un altro elemento assai interessante sulla frequentazione umana del territorio di Carpasio nella successiva età romana è invece costituito dalla probabile esistenza sul luogo dove sarebbe poi sorta la chiesa parrocchiale di Sant’Antonino, di un’antica e non meglio definita «chiesa dei gentili», ossia di componenti di una gens romana, forse vissuta nei secoli tardoimperiali, anche se sembra più plausibile che l’antico tempio risalga ai secoli dell’Alto Medioevo, quando la zona era già sicuramente cristianizzata e si andavano costruendo i primi edifici sacri dedicati al culto di santi da parte dei fedeli del comprensorio. In località Gain, sulla sponda sinistra del torrente Carpasina, esiste inoltre, nei pressi della sorgente detta funte du baggiu (fontana del rospo), un masso erratico completamente inciso con croci, la cui origine pare possa ricollegabile all’antica usanza di incidere questi segni da parte di antichi abitatori della zona oppure di pastori che transitavano vicino alle rocce quando si recavano al pascolo, usando strumenti litici probabilmente raccolti sul luogo, mentre risulta assai difficile e problematica la loro attribuzione cronologica, che dovette comunque abbracciare un lungo arco di tempo forse fino ai secoli medievali, anche se potrebbe essere ricevibile l’ipotesi che il masso sia collegato ad antiche funzioni cultuali legate alla venerazione delle acque e delle fonti perduranti fino all’epoca tardoimperiale, mentre le croci posteriori attesterebbero la definitiva assimilazione del culto pagano nell’ambito del cristianesimo secondo un processo di fusione molto diffuso e comune ai paesi di tutto l’arco alpino.
Dopo la caduta dell’Impero romano il territorio di Carpasio venne probabilmente frequentato da un nucleo longobardo, come sembra attestare il toponimo Cian d’Armànu, ossia «Piano dell’Alemanno» o meglio «dell’Arimanno», dove esistono tuttora delle costruzioni in pietra, forse abitate in età longobarda da alcune famiglie di militi che vi risiedevano con l’obbligo del servizio militare e col godimento delle terre, dette appunto «arimannia», continuando così l’organizzazione militare del castrum, che era stata istituita sulle Alpi al tempo dei Bizantini di Giustiniano. Pure ascrivibili all’età longobarda sono anche i toponimi Skurziwaudu (skurza è una voce di probabile origine germanica e significa nel dialetto locale avvistare, mentre waud proviene chiaramente dal tedesco wald, foresta) e Faravelu, che richiama il termine Fara, indicante un tipo di circoscrizione territoriale longobarda riferita ai nuclei familiari. Durante il periodo della dominazione longobarda il re Ariperto II donò a papa Giovanni VII nel 706 la Valle di Oneglia, la quale, tuttavia, venne ceduta il 2 febbraio 1100 da papa Urbano II al vescovo di Albenga, che ne assunse la giurisdizione iniziando a riscuotere le decime sul territorio di sua competenza, dove divenne uno dei principali feudatari della zona. Intanto anche Carpasio dovette subire le devastazioni causate dalle incursioni dei Saraceni, che, nel corso del IX e X secolo, assalirono ripetutamente i centri montani dell’estremo Ponente, tanto che pure nel territorio carpasino ne è rimasta traccia in un toponimo indicante una sorta di grotta naturale, ora crollata, a nord del paese, che veniva denominata Tana dii Sarracìn, forse a ricordo di un antico ricettacolo dove si rifugiava la popolazione locale per trovare scampo ai violenti attacchi saraceni. Al tempo della costituzione della Marca Arduinica nel X secolo, Carpasio venne inserito nel Comitato di Albenga nell’ambito dei possedimenti vescovili della Valle del Maro fino a quando, nel 1091, sopravvenuta la dissoluzione della Marca arduinica con la morte della contessa Adelaide, la valle del Maro con tutti i luoghi adiacenti alle sorgenti dell’Impero e tutti i paesi che rientravano nella sua giurisdizione, tra i quali anche Carpasio, oltre a quelli della sottostante valle di Prelà, passarono sotto la signoria dei conti di Ventimiglia, che vi avrebbero esercitato il dominio per diversi secoli a partire dagli inizi del XII secolo.
La prima attestazione sicura del paese risale ad un documento del 1153, con il quale il vescovo di Albenga Odoardo concesse al signore feudale di Lingueglietta Anselmo di Quadraginta il diritto di riscuotere le decime per suo conto in alcuni borghi della diocesi ingauna, tra i quali figurava appunto anche Carpasio. In un altro atto notarile, risalente all’8 dicembre 1182 e concernente la vendita fatta da Oberto di Carpasio al conte Ottone di Ventimiglia della metà dei beni posseduti dal suddetto Oberto nella valle di Oneglia, salva la decima di Lucinasco ed altre domenicali spettanti ad Oberto per la somma di 20 lire genovesi, viene attestata per la prima volta la presenza stabile in paese di una nobile famiglia feudale, che dovette presumibilmente risiedere in un luogo fortificato, forse un vero e proprio castello, di cui rimangono ancor oggi i ruderi costituiti da alcune pietre squadrate e giustapposte a secco oltre a parti di muratura probabilmente realizzate da manodopera qualificata e che dovevano essere state accerchiate da una cortina di case, le cui caratteristiche tipologiche in altezza e muratura ne dovevano fare delle «case forti». La fortificazione di Carpasio fu comunque un’opera che necessitò senza dubbio di una concessione regale o imperiale ottenuta dal signore locale che, sostenendo le spese per la costruzione del castello, aveva ricevuto in cambio dalla popolazione protetta delle prestazioni d’opera di carattere militare e civile, oltre alle sovvenzioni di natura fiscale. A tale famiglia di nobili vassalli dei conti di Ventimiglia appartengono i beneficiari di una vendita risalente al 4 ottobre 1234, quando il conte di Ventimiglia e signore di Badalucco Oberto cedette a Oberto Saccheri e ai fratelli Bonifacio e Jacopo Rosso di Carpasio e ad altri suoi vassalli, la terza parte del castello, villa, giurisdizione, consorzio e castellania di Carpasio, salvo il diritto feudale, mentre in quegli stessi anni anche il Comune di Genova iniziava ad estendere il suo dominio sui paesi della Valle del Maro, come attestato dalla cessione a Genova da parte del marchese di Ceva Pagano, di sua moglie Veirana, figlia del conte Oberto signore di Lucinasco, Caravonica e di metà di Prelà, e del fratello Michele, dei castelli, ville e giurisdizioni di Badalucco, Baiardo, Arma, Bussana e di tutti i loro diritti su Carpasio e Rezzo con atto stipulato il giorno 24 novembre del 1259. Con tali atti di acquisto la Repubblica genovese riuscì così ad avere ragione dei numerosi signori feudali della Riviera estendendo in tal modo i suoi domini fino alla rocca di Monaco minando alle basi l’edificio feudale, che ancora permaneva in questa zona della Liguria, per potersene quindi servire in caso di necessità.
Intanto la questione dei pascoli continuava a rappresentare motivo di attrito con i paesi vicini, per cui venivano raggiunti periodicamente degli accordi miranti a comporre le divergenze tramite apposite convenzioni come quella stipulata con Triora il 4 gennaio 1283 a Montalto nella proprietà di Rosso Ammirato tra i sindaci di Carpasio Bonino e Guglielmo Giordano e quello triorese Raimondo Calotta, che pervennero ad un accordo che prevedeva ingenti multe, stimabili a cura dei campari e rasperi del Comune di Triora, ai ladri di bestiame e ai pastori che lasciassero entrare bestie piccole e grosse di un comune nel territorio dell’altro e stabiliva una speciale procedura penale per coloro che si fossero resi responsabili di furto o risse tra cittadini delle due comunità o fossero stati messi al bando o espulsi dal proprio paese, concedendo piena facoltà al comune di appartenenza del condannato di intervenire per far rispettare le sanzioni a suo carico. Nei decenni successivi il paese continuò ad essere amministrato direttamente dai conti di Ventimiglia, che nel maggio del 1330 ottennero dal vescovo di Albenga Federico l’autorizzazione a riscuotere le decime nei paesi di Conio, Triora, Carpasio e Arzene, poi confermata dallo stesso Federico il 13 agosto 1349, dal suo successore Giovanni il 28 gennaio 1368 e da altri vescovi albenganesi nel corso del XIV secolo ai discendenti dei conti di Ventimiglia signori del Maro. Alla fine del Trecento il territorio carpasino venne ulteriormente diviso tra vari signori feudali, tutti appartenenti alla famiglia dei conti di Ventimiglia, che si accordarono sulle rispettive zone di influenza con atto stipulato il 28 settembre 1399, che confermava la spartizione del comprensorio tra i vari componenti della famiglia comitale. Nei decenni successivi esercitarono quindi il dominio sul territorio carpasino diversi rappresentanti della famiglia dei conti intemeli appartenenti ai rami e sottorami dei signori di Conio, del Maro e di Lucinasco, insieme ad altri consorti di questi e forse anche di componenti di rami collaterali della famiglia. Stante questa situazione politico-amministrativa, il 21 luglio 1433 i rappresentanti della comunità di Carpasio, riuniti nella piccola chiesa di Lucinasco, approvarono gli Statuti del paese, i quali avrebbero regolato minuziosamente nei secoli seguenti la vita politica, sociale ed economica del borgo. Secondo quanto previsto da queste leggi, il potere giudiziario era affidato ad un tribunale (Curia), composto da magistrati (Emendatores) coadiuvati da nove conciliatori con l’incarico di dirimere liti e questioni con giustizia; l’assemblea generale degli uomini era invece costituita dal Parlamento, che eleggeva il Consiglio detto dei Dodici o Consiglio Generale, che a loro volta avevano la facoltà di eleggere il sindaco o i sindaci e i campari preposti alle questioni riguardanti le terre. Il sindaco, che rimaneva in carico per un anno, era tenuto ogni anno a rendere conto al Comune di Carpasio della sua attività amministrativa, mentre gli atti pubblici erano redatti dai notai e il governo del paese era affidato al podestà, che esercitava le sue funzioni insieme ai consoli che rappresentavano la comunità.
Molti capitoli degli Statuti sono poi dedicati alla protezione delle risorse del territorio con una serie di normative tramandate da generazione in generazione oralmente, le quali erano destinate a regolamentare oltre all’attività dei pascoli, anche lo sfruttamento agricolo degli appezzamenti di terreno vietato a tutti i forestieri allo scopo di proteggere le risorse agricole locali, mentre erano previste delle sanzioni pecuniarie per coloro che fossero stati sorpresi a rubare biada da un ricovero o il grano raccolto dall’aia, per quelli che appiccavano incendi nel territorio comunale e per tutti coloro che avessero tagliato o danneggiato alberi di castagno presenti nel comprensorio carpasino. Altre norme degli Statuti vietavano tassativamente a chiunque di svellere o asportare i cippi di confine con i comuni limitrofi, la cui precisa delimitazione era rigorosamente fissata per legge; la comunità si impegnava inoltre ad esercitare il suo controllo sull’attività molitoria nei vari mulini del territorio comunale con dettagliate quantificazioni di grano e farina che potevano essere portate al mulino da parte degli mugnai e delle loro famiglie i quali dovevano giurare nelle mani del podestà e dei consoli di rispettare le norme degli Statuti che li riguardavano. Particolare attenzione era poi riservata alla manutenzione del fitto sistema di strade pubbliche e private, che era affidata all’intera comunità con pene severe per coloro che si fossero appropriati o avessero distrutto a proprio vantaggio le strade del Comune senza l’esplicita autorizzazione del Comune stesso; anche l’acqua, bene particolarmente prezioso e indispensabile per il lavoro dei campi, era soggetta a precise regole, che stabilivano che nessun carpasino avrebbe potuto condurre la propria acqua su terreni altrui e, in caso di vertenza con altri contadini, la questione avrebbe dovuto essere sottoposta a due rappresentanti dell’amministrazione giudiziaria, la cui sentenza sarebbe dovuta essere vincolante per entrambi le parti. Nell’ultimo capitolo degli Statuti venne infine stabilito che nessun abitante di Carpasio avrebbe potuto tenere alberi sui confini del suo vicino, ovvero vicino alla terra del confinante, e in particolare noci, ciliegi, prugni e simili, per due canne (la canna era un’antica misura di lunghezza che oscillava tra i due e i tre metri), e gli altri alberi selvatici per quattro canne sotto la pena di cinque soldi, salva la facoltà per la giustizia locale di far sradicare i suddetti alberi in caso di violazione delle norme statutarie.
Pochi decenni dopo il conte di Ventimiglia Gaspardo vendette ad Onorato Lascaris di Tenda, signore del Maro, con atto stipulato il 9 maggio 1455, tutti i diritti, giurisdizioni, beni e redditi sulle terre, ville e castellanie di Carpasio, Montegrosso, Pornassio, Prelà superiore e inferiore, Borghetto, Mendatica, Valloria, Aurigo, Lavina e Cenova al prezzo complessivo di 8600 lire. Così il conte Onorato, che usufruì anche dei lasciti ereditati da Rainaldo di Ventimiglia con successivo testamento del 2 marzo 1462, divenne il maggiore signore fra quelli aventi diritto sulla Valle del Maro. Intanto, il 15 maggio 1475, era stata raggiunta una nuova convenzione tra Carpasio e Triora, nella quale i rappresentanti delle due comunità si promisero a vicenda di non lavorare né recidere alberi di castagno nelle terre comuni, con un accordo motivato dall’espansione triorese nella zona contemporaneamente alla nascita di Glori, senza tuttavia che si risolvessero le cruente liti su questi territori. Neanche un accordo raggiunto tra il governo genovese e quello sabaudo l’8 luglio 1736 sulla soppressione della comunaglia con una delimitazione che di fatto penalizzava gli abitanti di Glori, avrebbe sopito i contrasti che sarebbero proseguiti sino alla fondazione della Repubblica Ligure. Nel frattempo, il passaggio di proprietà di Carpasio e degli paesi limitrofi dalla linea dei Ventimiglia a quella collaterale dei Lascaris causò nuovi dissidi e contrasti tra i nuovi signori e altri feudatari locali che avevano interessi nella zona, i quali avrebbero rinfocolato accese controversie che non sarebbero cessate nemmeno con l’estinzione della linea maschile dei Lascaris con la morte di Onorato di Savoia, siniscalco e governatore della Provenza, che spirò ad Avignone nel 1572 senza lasciare eredi diretti. Concorsero allora alla successione del contado di Tenda e delle signorie del Maro e di Prelà da una parte Renata Lascaris di Savoia, sorella di Onorato e moglie di Giacomo marchese d’Urfè, e dall’altra Onorato II Lascaris di Savoia, ammiraglio e maresciallo di Francia, oltreché secondogenito del Gran Bastardo Renato di Savoia e della contessa Anna Lascaris, che appoggiava le sue pretese sulle ultime disposizioni del padre, mentre quelle di Renata si fondavano sul testamento della nonna Anna Lascaris, da cui, in mancanza di eredi maschi, veniva costituita erede nel contado di Tenda e negli altri feudi della Valle del Maro e di Prelà. Dopo uno scontro armato tra le truppe inviate da Onorato II per far valere i suoi diritti e quelle ingaggiate da Renata con esito favorevole a quest’ultima, la marchesa d’Urfè rimase quindi l’unica signora di Carpasio e degli altri paesi vicini, ma alla fine la nobildonna dovette cedere alle pressanti richieste del duca di Savoia Emanuele Filiberto, che aspirava a collegare il Piemonte col Nizzardo attraverso l’acquisto della contea di Tenda, il quale rilevò dalla marchesa il possesso di Tenda e delle valli del Maro e Prelà, oltre a quello di Oneglia e Pornassio, comprese le adiacenze di Montegrosso e Borghetto, con atto stipulato il 12 luglio 1575 in cambio della signoria di Rivoli in Piemonte e della baronia di Baugé nella Bresse. Tale cessione non fu però riconosciuta dall’unica figlia di Onorato II Enrichetta di Savoia, la quale proseguì la lite intrapresa dal padre per la rivendicazione dei suoi feudi, che furono comunque acquisiti definitivamente da Emanuele Filiberto con transazione stipulata il 21 ottobre 1579 con la pretendente Enrichetta, che rinunciò a tutti i suoi diritti sul contado di Tenda, le signorie del Maro e di Prelà e la valle di Oneglia. Con atto del 9 gennaio 1590, le valli del Maro e Prelà furono erette quindi in marchesato da Carlo Emanuele I, che lo assegnò a Gio Girolamo Doria riunendosi così alla valle di Oneglia al fine di costituire insieme l’omonimo Principato creato dal duca Carlo Emanuele I nel 1620, nel quale fu compreso anche Carpasio che da allora rimase stabilmente sotto il dominio dei Savoia.
Frattanto, nell’ambito delle disposizioni emanate dal Concilio di Trento, il 15 marzo 1585 giunse a Carpasio il visitatore monsignor Angelo Peruzzi della Curia di Asti per procedere alla visita degli edifici sacri del paese, allora sotto il dominio ecclesiastico del vescovo di Albenga; in base alla relazione della visita pastorale di Peruzzi si evince che il prelato visitò lo stesso 15 marzo la chiesa parrocchiale di Sant’Antonino con la fonte battesimale, la sacrestia e tutti gli altari, e quindi la Casa canonica, l’ospedale e le sedi della Confraternita di Santo Spirito e del Monte di Pietà. Due anni dopo giunse invece da Torino il commissario Marco Antonio Ribotti di Pancalieri, inviato dal duca sabuado Carlo Emanuele I con l’incarico di ricevere dalla comunità di Carpasio qualunque tipo di scrittura e deposizione che potesse riguardare i diritti e le ragioni allodiali e feudali spettanti a Casa Savoia; il commissario riunì quindi l’11 marzo 1587 nella casa di Giuliano Balestra i rappresentati della comunità carpasina, i quali gli sottoposero tutte le ragioni degli abitanti del paese in merito a feudi, retrofeudi, censi, redditi, fitti e tutte le altre entrate fiscali oltre a ogni altra ragione di diritto spettanti al duca, che ottenne in cambio un giuramento solenne di fedeltà da parte dei suoi nuovi sudditi.
Nel corso del Seicento il paese rimase stabilmente sotto il dominio sabaudo del Marchesato del Maro, i cui signori si alternarono alla guida del borgo, tra i quali si ricordano gli Amei di Borgomaro che ressero Carpasio nel 1688, mentre in quegli anni venne anche stipulata una convenzione tra i capifamiglia del paese e un certo Giovanni Battista Fontana di Conio in merito all’acquisto di decime e «fogaggi» dal marchese Doria del Maro. Verso la metà del XVII era inoltre molto attivo il Parlamento locale, che dirigeva e controllava tutta l’attività politica e amministrativa del borgo emanando provvedimenti e procure relativi a varie questioni di interesse pubblico come la vendita di terreni di proprietà comunale. Dal 1696 al 1705 il paese era stato intanto retto sotto l’aspetto militare dal capitano Antonino e dal sergente Giovanni Battista Borelli, mentre dal 1742 al 1764 fu capitano delle milizie locali Gio Lorenzo Borelli, cui successe nella stessa carica il figlio Giovanni Battista. Nel frattempo la popolazione carpasina era considerevolmente aumentata soprattutto a partire dai primi decenni del Settecento quando si aggirava sui cinquecento abitanti, che sarebbero passati a oltre ottocento nella prima metà del XIX secolo. Nel settembre del 1756 erano stati frattanto emanati da parte delle autorità locali dei bandi campestri allo scopo di porre fine ad una lunga serie di abusi alle disposizioni statutarie ed in particolare ai danni e furti che si verificavano nelle campagne, tanto che furono introdotte delle pesanti sanzioni pecuniarie per tutti coloro che si fossero resi responsabili della sottrazione di prodotti della terra e della rottura o danneggiamento delle condutture dell’acqua, mentre venivano pure specificate le gabelle gravanti sugli abitanti del borgo e si riaffermava la necessità della protezione delle strade pubbliche, la cui manutenzione, obbligatoria e gratuita, spettava sempre alla comunità, che era tenuta a rispettare i tempi del lavoro e del riposo con alcune deroghe previste per le feste comandate tra le quali figurava quella del Santo Patrono.
Pochi anni prima il paese era stato coinvolto nelle operazioni militari della guerra di Successione austriaca, tanto che si ricorda a proposito un episodio che ebbe a protagonista un certo capitano Borelli di Carpasio, il quale si distinse per aver messo in salvo gran parte dei suoi soldati, minacciati dalle truppe franco-spagnole, attraverso le vie impervie e tortuose del borgo che egli conosceva alla perfezione. Successivamente, nell’ambito degli scontri sostenuti dalle milizie locali contro i Francesi che avevano invaso la zona nel 1794, un contingente di soldati carpasini guidati dal capitano Borelli riuscì non senza gravi perdite a sconfiggere un battaglione francese, che venne respinto sino a Badalucco. Dopo l’annessione della Liguria all’Impero francese nel 1805, Carpasio fu inserito nel Dipartimento di Montenotte a differenza del confinante paese di Montalto che venne assegnato al Dipartimento delle Alpi Marittime. Nel 1815 il borgo passò quindi, con il resto della Liguria, al Regno di Sardegna e fu sottoposto alla giurisdizione della Divisione di Nizza. Durante gli anni della Restaurazione venne emanata tra l’altro una disposizione relativa al taglio del bosco comunale detto «Roverai», che avrebbe dovuto essere effettuato tra l’ottobre del 1829 e l’aprile del 1830 a beneficio di eventuali compratori, i quali erano autorizzati a convertire la legna in carbone e a piantare nel terreno disboscato dei semi per la riforestazione della zona. Trent’anni dopo, in seguito alla cessione della Divisione di Nizza alla Francia avvenuta nel marzo 1860, Carpasio fu inglobato nella nuova provincia di Porto Maurizio in qualità di Comune appartenente al mandamento di Borgomaro seguendone poi le alterne vicende nei primi decenni dello Stato unitario. Nel 1864 era stato intanto approvato un nuovo regolamento sui pubblici pascoli, che accordava ai pastori locali l’autorizzazione, previo il pagamento delle tasse in vigore, di pascolare i loro animali in tutti i terreni gerbidi, pratili, castagnili e boschivi del territorio carpasino in cui non fosse stato espressamente vietato l’uso del pascolo con provvedimenti speciali.
Nel febbraio 1887 il paese subì gravi danni a causa del terremoto di quell’anno che causò in particolare delle lesioni alla chiesa parrocchiale di Sant’Antonino, mentre nei decenni successivi Carpasio visse un periodo di notevole sviluppo economico e sociale, incentivato tra l’altro dalla costituzione, nel 1906, di un ente cooperativo per lo sfruttamento della lavanda (su cui sarebbe stato emanato anche un apposito regolamento dal prefetto di Porto Maurizio Cotta il 6 aprile 1922 per disciplinarne la raccolta), anche se il borgo pagò la sua partecipazione alla guerra del 1915-18 con numerosi caduti sul fronte italiano. Dopo gli anni del primo dopoguerra e del regime fascista, all’indomani dell’annuncio della stipulazione dell’armistizio con gli Alleati e della nascita della Repubblica di Salò, il paese divenne sede di un’intensa attività partigiana, che ebbe il suo culmine con la celebre battaglia di Monte Grande, svoltasi il 4 e 5 settembre 1944, nel corso della quale i Tedeschi, occupata la vetta della montagna nelle prime ore della mattinata, furono cacciati dalla loro munita posizione da un poderoso attacco di un gruppo di garibaldini della Divisione «Felice Cascione», che riuscirono ad occupare la vetta infliggendo gravissime perdite al nemico e ripiegando infine verso il bosco di Rezzo dopo aver compiuto la loro missione. Nei pressi di Carpasio fissò inoltre la propria sede operativa sino alla fine di luglio del 1944 il Comando della IV Brigata «Elsio Guarrini» inserita nella II Divisione «Cascione», mentre nella parte inferiore del paese fu attivo per molti mesi durante il periodo della guerra di liberazione un ospedale partigiano costituito da un’abitazione di quattro piani, nel quale trovarono ricovero e assistenza numerosi combattenti feriti nel corso delle azioni contro i nazifascisti nella zona circostante. Nel secondo dopoguerra il paese, se da un lato ha dovuto affrontare il problema del progressivo e inevitabile fenomeno dello spopolamento, ha visto il rilancio delle tradizionali attività agricole, tra le quali spiccano quelle legate all’olivicoltura, peraltro molto modesta, alla viticoltura, che consente una limitata produzione del vino Ormeasco, alla produzione di cereali, alla raccolta di castagne e all’apicoltura, mentre dalla pastorizia, che può contare su un discreto numero di bovini e ovini, si ricavano modesti quantitativi di ricotta e formaggio. Più consistente è invece il settore terziario nel quale rientra anche il comparto turistico, che si avvale attualmente di tre ristoranti e un albergo-ristorante in grado di offrire alla loro clientela i piatti tipici della cucina locale, mentre appare in netta crescita la diffusione delle «seconde case» che accolgono, soprattutto durante la stagione estiva, numerosi «Carpasini di ritorno», che costituiscono la maggior parte dei villeggianti. Negli anni più recenti si è potenziato inoltre l’acquedotto del capoluogo e successivamente anche quelli delle frazioni, è stata rifatta la rete fognaria, si è potenziata l’illuminazione pubblica e si è ripavimentata parte della rete viaria urbana, mentre, per quanto concerne la grande viabilità, curata e tenuta sempre in buono stato dall’Amministrazione provinciale, è possibile raggiungere oggi agevolmente il paese sia da Arma di Taggia sia - attraverso il colle d’Oggia - dalle varie località della Valle Impero, facilitando in tal modo l’arrivo in paese dei molti turisti che provengono dal Piemonte, i quali possono così usufruire della possibilità di evitare l’attraversamento di Imperia abbreviando sensibilmente il tragitto.
Dott. Andrea Gandolfo - Sanremo".