Eventi - 05 agosto 2024, 14:39

Sanremo, si chiude la 25ª edizione di Rock in the Casbah: “Un tempo sognato che bisognava davvero sognare”

Come da tradizione a chiudere la rassegna sono le parole di Simone 'Radiomandrake' Parisi

Simone Parisi (Foto Marco Dontiello)

La tradizione si ripete. Anche per la 25ª edizione sono le parole di Simone 'Radiomandrake' Parisi a chiudere il sipario sull'edizione di Rock in the Casbah

Un concerto lungo 25 anni in un luogo che non trovi, che odi quando devi scaricare gli strumenti ma dal quale non te ne andresti più. Ora prevale l’alternanza continua del gradimento, come fosse un eterno succedersi di hardware plug and play, di quelli che vengono riconosciuti all’istante e funzionano subito, senza nessun bisogno di riconoscimento. In fondo basterebbe questo per raccontare 25 anni vissuti in una stagione. Ogni celebrazione contiene ricordi, ogni anniversario contiene il rinnovo di un atto, che sia unione, che sia riproposizione di promesse, che sia un sacramento. Le nozze d’argento le si considera davvero, e le promesse rinnovate vedono sempre di fronte Fare Musica con la Dirty Old Town tutta, San Costanzo in particolare. Ed organizzare musica lassù sembra qualcosa poco più vicino all’impossibile che al difficile, e tutta questa indeterminatezza è l’ingrediente segreto per far diventare tutto così unico. A cominciare dalla cura dei piccoli dettagli quotidiani.  

Luca accarezza la piazza con l’amore di un figlio che si prende cura della mamma. La città vecchia gli ha dato natali e dimora, vale la pena rendere qualcosa. Nel mentre sorride ai turisti folgorati, immagino quegli occhi, spesso stranieri, che si trovano all’improvviso in mezzo ad un palco con la potenza di fuoco di migliaia di watt. Li immagino mentre salgono le ultime scale per prendere una vista dall’alto ed incontrano lui che sta facendo un video su tik tok. Luca è un attore nato, forse anche Robi che lo guarda immobile, seduto sulla sedia come una statua vivente, sarebbe un ruolo perfetto per lui. E ti accorgi dell’importanza di quei dettagli quando scorgi ogni abitante del rione che passa per salutarli. 

Il luogo è meraviglioso, incantevole, vestito come una donna bellissima che va incontro alla sera, ma ci son case, famiglie, odori di cucina, panni stesi, gatti randagi, c’è una vita che procede, c’è il giorno che splende e che pare una pausa del tape quando si stoppava in fretta la musicassetta per rispondere ad una richiesta della mamma. C’è un giardino che una volta la cara Dede faceva pulire, perché voleva respirare quel pepe mentre si lascia scuotere dal poco vento che arriva insieme ai gabbiani. C’è la finestra della Luigia, appena coperta da una piccola tenda perché non le entri troppa luce stroboscopica ma solo tanta musica. E ci sono gli incontri. Un quartiere  che cerca l’ombra insieme rubando i secondi al giorno. Una comunità intera che invadiamo come fossimo un fiume che rompe gli argini ed esonda. Questo è davvero San Costanzo. Quelle terrazze così ambite in campo artistico, viste come “isola che-non-c’è” rifugio di “bambini-sperduti” e mille altre metafore che nel corso degli anni io stesso ho tracciato. 

E c’è tutta la vita che non c’è più dall’ottobre 1944, macerie che han disegnato gli angoli per decenni, prima che la bonifica iniziata negli anni 80 rendesse merito a tutto. 

Ma in fondo la nostra è una ripromessa di matrimonio d’argento. Dal primo atto d’amore ufficiale nei confronti di San Costanzo son passati 25 anni. Non abbiamo mai litigato, e già per questo il matrimonio pare assolutamente anomalo. Perché a quella donna non son mai serviti gioielli e nemmeno lingerie firmata, solo amore e musica. Facile andarci d’accordo per gente che compone un’associazione chiamata “Fare Musica”, molto meno facile accontentarla assecondando spigoli ossuti di scalini e muri, archi che sembrano messi lì solo per bellezza, palchi posticci montati per l’occasione, palme che delimitano spazi come fossero roseti messi in testa ad un vigneto per monitorare la salute del tralcio di vite. E c’è sempre un attimo durante le prime luci della sera quando un sottofondo morbido si fa ascoltare, magari la voce immortale di Chris Cornell, e ancora l’illuminazione pubblica é accesa, non è buio, ma le prime pennellate di colore invadono i muri come fossero baci dati in punta di lingua. Ci vorrebbe un genio del colore per renderli come davvero si mostrano. Non si può che fermarsi, sedersi, chiudere gli occhi rivolti in quella direzione per riaprirli subito dopo, simulando la prima immagine della sera, quella che ti si attacca addosso e che ti fa sospirare e respirare. Nessun tentativo di avvicinarsi alla poesia può raccontare davvero. Io ci provo da anni, forse dicendo sempre le stesse cose, e continuo a provarci, finché scoprirò che è impossibile trovare parole, nemmeno se prese in prestito d qualcuno molto più bravo. E penso alla Scimmia di luce e di follia raccontata da Paolo Conte. E mi soffermo, scopro che la gente ha davvero una faccia ed un’espressione un po’ così perché è stata a San Costanzo in agosto e chiede solo di poter tornare ai temporali sepolti nel cuore di tutti i giorni, visto che qui i giorni sono tutti uguali ed anche i gamberoni rossi rimangono un sogno perché il sole cuoce le pietre e si mostra veemente come un lampo giallo al parabris. 

Si. Perché San Costanzo per noi non è un’idea come un’altra. È il luogo che abbiamo scelto di sposare. Il luogo che abbiamo scelto di amare, quindi da rispettare. 

Queste sono le “carte da decifrare” che cantava Ivano Fossati, tutta questa l’enorme pausa tra le note, quindi questa è la melodia dei 25 anni. I coriandoli musicali ascoltati e ballati nel corso del tempo si mischiano come parte dello stesso quadro, nasce una sinfonia dai ritmi cadenzati, poi massicci, infine anche dolci, quindi ti rimane addosso un solo ritornello, un inno alla gioia come fece nel 1785 Friedrich Schiller sull’ultimo movimento della nona di Beethoven. Ed in fondo è sempre bello riconoscere la gioia in fondo alle cose. Avvertirla negli occhi di tutti, risentirla nelle storie pubblicate su Instagram. Significa aver condiviso, aver adornato di “bello” il giardino di ognuno, per un poco lontano dai propri problemi. Il fatto che qui non sia mai successo nulla per così tanti anni vuol dire che non c’è posto per gli attriti quotidiani, significa che si può stare per una sera con le incomprensioni ben chiuse nella propria casa. Per tutti qui vige la sensazione dell’indeterminatezza, lo si diceva della nota Blue nascosta negli accordi...e mi piace pensare che ognuno qui sia Robert Johnson, il bluesman del “crocicchio”: eterno e magnifico con la chitarra mentre racconta della sua Sweet Home Chicago e povero ragazzo, pieno di storie tragiche al di fuori del palco. O forse ognuno qui si sente Michelangelo Merisi da Caravaggio mentre dipinge la luce scura e crea quel contrasto forte tra le figure incontrate nel quotidiano. Al di fuori di qui la Vita oltre l’arte, le risse da osteria. Qui io mi sento Gerorge Best mentre muove il pallone come se fosse una nuvola in un cielo d’agosto e fa un tunnel a Johan Cruijff, e mi sento un po’ come El Loco Gatti mentre si siede sulla parte alta della traversa perché gli avversari non tirano mai in porta. 

E non serve nemmeno sapere chi ha suonato, chi suonerà, e come lo farà, ci sarà sempre gente che arriverà nonostante tutto, si radunerà come fosse una serata di leva. Regalare l’occasione di riviversi ed abbracciarsi è un privilegio enorme, come lo è il fatto di poterlo fare in un luogo sospeso nel tempo, una piazza che non è tale nelle carte topografiche, la Nisida che cantava Edoardo Bennato, dove per arrivarci attraversi la Via del Campo di De André, cerchi l’Africa in giardino perché vedi un oleandro e quindi cerchi il Baobab come cantava Paolo Conte ma soprattutto dove non ti senti mai dire No tu No appena dici Vengo anch’io come faceva Jannacci. 

Ecco tutto. Ecco il concerto lungo 25 anni, ecco la tavola da surf che noi, sedicenti Bear, costruiamo ogni Mercoledì da leoni. E la musica ogni anno è onda vera, un pipeline dove poter essere Jack, Matt o Leroy per attraversarla. Ed è tutto un attimo, cantava così Anna Oxa tanti anni fa al Festival, tutto un attimo, ma sospeso nel tempo e nello spazio, attimo felice, dove non ci stanno i problemi perché lo spazio è poco e ci vive tanta gente. Ci battono tanti cuori, ci vivono tanti amici. Ed ovunque proteggono tante anime, tutte sedute in pace sulla stella più brillante, esattamente in bilico come le disegnerebbe Sudario Brando, da quest’anno anche quella di Massimo Cotto, e noi abbiamo imparato da una di queste che è superfluo fare sogni ad occhi aperti quando si ha la possibilità di viverli.

Rock in the Casbah non è un sogno ad occhi aperti, ma una realtà che si vive insieme, da 25 anni, come una melodia, come un tempo sognato che bisognava davvero sognare.

Redazione