Con una sobria cerimonia nell’aula consiliare Matteo Orengo, sindaco di Badalucco, ha accolto ieri mattina il collega Roberto Padrin, primo cittadino di Longarone e presidente della provincia di Belluno.
Era la restituzione della visita fatta, nell’ottobre scorso dagli amministratori bauchegni nei luoghi della tragedia del Vajont: Longarone, Erto e Casso. E’ stato così riannodato quel fil rouge che tiene unito il binomio Vajont, Diga di Glori, la diga mai nata, perché il disastro del Vajont, nel 1963, portò una valle in piazza a prendere le botte dai celerini, che non andavano molto per il sottile, pur di scongiurare la creazione di una nuova grande barriera sul torrente Argentina, un incubo sulla propria testa.
I 1.917 morti del Vajont, tra cui 487 bambini ed adolescenti, furono un monito per tutte le future grandi opere di ingegneria idraulica in Italia. “Andammo a visitare la diga del Vajont e il cimitero che accoglie i caduti di quella tragedia immane – ha detto Matteo Orengo – quel disastro accaduto all’improvviso nella sera del 9 ottobre 1963 per i badalucchesi significò paura, furore, rabbia. Ebbero allora la determinazione giusta per impedire in un territorio fragile, con alluvioni ricorrenti, la creazione di un incubo per gli anni a venire. E’ il lascito che noi abbiamo raccolto ora nei confronti di chi vorrebbe una riedizione di quel progetto”.
Il commento del sindaco Roberto Padrin
E’ difficile assegnare a queste parole un significato di riconoscenza, pensando alle duemila croci del cimitero di quella valle bellunese, ma la medaglia di Amico di Badalucco, con un dvd del territorio, consegnata oggi a Roberto Padrin di questo parla: “Non conoscevo la storia della rivolta per la diga di Glori – ha replicato Roberto Padrin, classe 1970, sindaco da 15 anni – ma ogni volta Longarone, da allora, diventa un monito a guardare all’uomo con attenzione, soprattutto quando ci si confronta con la fragilità del territorio. Anche perché le vittime sono state tantissime e i responsabili non hanno pagato. Il Vajont deve essere un vincolo a progettare in massima sicurezza, con studi approfonditi. E noi primi cittadini abbiamo il dovere di evitare quanto più possibile il rischio per garantire ai nostri concittadini una vita serena e tranquilla. Noi siamo al servizio dei nostri cittadini. Dobbiamo essere pronti a dare tutto te stesso per gli altri”.
Con un breve tragitto in macchina il gruppo di persone costituito da alcuni amministratori (vice sindaco Daniele Prevosto, assessore Giusy Laigueglia) e tre esponenti del comitato che si oppone alla diga di Glori ( Franco Bianchi, Giuseppe Panizzi, Raffaello Anfossi) si è recato attraverso la vecchia statale della Valle Argentina sino a Glori.
Lo spettrale ‘scheletro’ della diga mai nata da li sotto non si vedeva, ma si vedeva in tutta la sua evidenza la fragilità dei due contrafforti della collina a cui avrebbe dovuto appoggiarsi il manufatto. Qui il geologo Raffaello Anfossi, come in un’aula a cielo aperto ha potuto far toccare con mano sui versanti scoscesi e fatturati, cosa vuol dire fragilità del territorio. La spalla sinistra è una struttura tettonica ormai rovesciata. Le ferite, le fratture, le discese argillose e sassose della montagna non mentono. E parlano a tutti.
“Se proprio in provincia hanno necessità di individuare nuove risorse idriche – ha fatto eco il prof. Franco Bianchi – il recente convegno di Ventimiglia ha dimostrato che si può trovare molta acqua attingendo direttamente dalle falde acquifere”.
“E’ la dimostrazione palese – ha concluso Matteo Orengo con le spalle al torrente che qui scorre copioso – che soluzioni se ne possono trovare coinvolgendo il territorio di tutta la provincia. Badalucco dice decisamente no, come sessant’anni fa, alla penalizzazione di un unico territorio. Come sindaco, vista la situazione geologica della nostra area devo assoutamente tenere nel dovuto conto anche la sicurezza psicologica dei miei concittadini. Senza se e senza ma”.
E chi gli può dare torto. L’incontro di ieri con Longarone non si è concluso con una visita, in un luogo silenzioso zeppo di croci. Si sentiva l’acqua scorrere, lo stornire delle fronde e il verso di qualche animale. Mute in silenzio, stavano, le travature in cemento armato della diga mai realizzata. Che da lì sotto, manco si vedevano.