“I casi di patologie respiratorie, tra pazienti (compreso purtroppo qualche decesso) e operatori sanitari di alcune case di riposo, in provincia di Imperia e non solo dall'inizio dell’emergenza Covid-19, tranne qualche eccezione dovuta a fattori contingenti (ricoveri in Pronto Soccorso per aggravamenti ingestibili in struttura e conseguente esecuzione ospedaliera del tampone) non sono conteggiati tra i casi sospetti, pur presentandone i sintomi che dalle direttive dell’Oms imporrebbero almeno la segnalazione (tosse, febbre, dispnea, ecc...), ma anzi vengono gestiti come in precedenza all'emergenza”.
A sostenerlo è un fisioterapista, Flavio Scarella, di una ‘Residenza protetta’ che ci segnala quella che, a suo parere, è una grave lacuna nel meccanismo di prevenzione, isolamento e monitoraggio del contagio. Secondo Scarella a nessuno, né ai pazienti né agli operatori sanitari viene fatto il tampone per individuare eventuali positività al Coronavirus e, in un perfetto circolo vizioso, i pazienti sono eventualmente liberi di infettarne altri nonché gli operatori (e questi di estendere eventualmente il contagio ai loro familiari e a chiunque incontrino sul loro cammino al di fuori delle strutture).
“Questo accade – sottolinea il Dott. Scarella - come i colleghi che lavorano in Ospedale a cui va tutta la mia personale stima, anche noi non viviamo segregati sul luogo di lavoro ma finito il turno torniamo ovviamente a casa. In più, contrariamente ai primi, sul lavoro non abbiamo idonei dispositivi di protezione individuale che il caso richiederebbe (un caso sospetto dovrebbe essere trattato come uno accertato, e cioè con mascherine idonee, tute e calzari monouso, ecc... che in casa di riposo mancano, perché la fornitura ufficiale presuppone una richiesta che non avverrà mai se tutto viene gestito nel più assoluto riserbo)”.
Scarella tira in ballo anche il protocollo ‘Alisa’ del 24 marzo scorso, secondo il quale “l'operatore sanitario che abbia lavorato anche su casi confermati di COVID-19 e anche senza DPI (dispositivi di protezione individuale) per rischio droplet, in assenza di sintomi non è prevista l'interruzione dell'attività lavorativa”. Secondo Scarella questo sarebbe in contrasto col principio di prevenzione del contagio.
Il fiosioterapista, oltre ad esprimere la sua solidarietà ai colleghi (vi sono Fisioterapisti che lavorano esclusivamente in ambito respiratorio) e a tutti gli altri operatori sanitari e non, della ‘Prima linea’ nelle strutture ospedaliere, senza alcuna distinzione, non nasconde preoccupazioni per la salute di pazienti anziani ‘fragili’, non autosufficienti e particolarmente vulnerabili, e per quella degli operatori in strutture sanitarie territoriali (come RSA o RP), che operano a stretto contatto con i primi: “Un rischio – dice Scarella - anche di altre persone indirettamente coinvolte (loro familiari e chiunque venga inconsapevolmente a contatto con un sanitario che esca da una struttura) in virtù della mancata esecuzione di tamponi sia su pazienti palesemente sintomatici (come invece disposizioni OMS richiederebbero, o meglio avrebbero richiesto per quelli già deceduti), sia sui sanitari stessi”.
Scarella conclude con le conseguenti preoccupazioni sull'effettiva correttezza dei dati epidemiologici: vi possono essere contagiati non conteggiati (decessi compresi): “Infine – termina – c’è anche il mio più profondo rammarico di dover scrivere tutto ciò ad esclusivo titolo personale, in quanto avrei preferito che in tristi occasioni come questa la solidarietà interprofessionale e verso i pazienti non partisse soltanto da iniziative di singoli (come fortunatamente qualche collega ha già espresso) ma che si potesse concordare un comunicato con le istituzioni professionali fisioterapiche di riferimento, finora inutilmente interpellate”.