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Attualità | 03 novembre 2019, 08:00

Liguria sotto attacco: le incursioni dei pirati barbareschi nell'analisi di Alberto Berruti

Un secolo e mezzo di paura e insicurezza che la storia insegnata a scuola tocca molto indirettamente, ma di cui rimane testimonianza nelle costruzioni difensive e in parte anche nella memoria collettiva.

Liguria sotto attacco: le incursioni dei pirati barbareschi nell'analisi di Alberto Berruti

Avete mai notato la presenza di un gran numero di torri o piccoli forti sulla costa e nei paesi del primo entroterra?

A quando risalgono? A cosa serviva un così capillare sistema difensivo? Quale pericolo così temibile veniva dal mare?

Immaginate di trovarvi in un paese qualsiasi della Riviera Ligure tra maggio e ottobre, nel periodo caldo insomma, è ora di andare a dormire ma siete irrequieti.

Avete paura di essere svegliati da un manipolo di banditi che potrebbero rubare tutto ciò che possedete, rapirvi e vendervi come schiavi.

Sapete che potreste addirittura venire inseriti in un pacchetto vacanze permanente sul Mediterraneo, incatenati al un remo di una galea, mentre le signore potrebbero trovare collocazione stabile nell’harem di qualche califfo…

Ecco, questo più o meno era lo stato d’animo di qualsiasi donna o uomo ligure prima di coricarsi tra inizio Cinquecento e metà abbondante del Seicento, quando la nostra regione era alle prese con le incursioni dei pirati turco-barbareschi.

Un secolo e mezzo di paura e insicurezza che la storia insegnata a scuola tocca molto indirettamente, ma di cui rimane testimonianza nelle costruzioni difensive e in parte anche nella memoria collettiva.

Ricordo con simpatia un bidello delle elementari vicino alla pensione, era un po’ il nonno di tutti noi bambini. Quando facevamo finta di aggredirlo, lui alzava le mani in segno di resa e ci diceva in dialetto: “Sciu Turcu, m'arendu!” , “Signor Turco, mi arrendo!”. D’altronde chi non ha mai sentito la famosa esclamazione meridionale “Mamma li Turchi!”?

I pirati barbareschi

Cominciamo con una precisazione.

Non bisogna confondere, come spesso accade, i pirati barbareschi con i Saraceni, cioè con quei popoli arabi protagonisti dell’espansione dell’Islam precedente all’anno Mille che era culminata con l’occupazione della Spagna. I Saraceni che attaccavano le nostre coste avevano una base vicino a Saint-Tropez, distrutta dai Conti di Provenza nel 972. L’epopea dei Barbareschi inizia invece molto dopo.

Nel 1453 Costantinopoli cade per mano dei Turchi Ottomani, prendendo il nome di Istanbul. Dopo questa conquista strategica, l’Impero della Mezzaluna si afferma a poco a poco come potenza egemone nel Mediterraneo attraverso il controllo delle coste mediorientali e soprattutto di quelle nordafricane, cioè la zona che allora veniva chiamata Barberia.

Obbiettivo del Sultano non è solo espandere i propri territori ma anche diffondere l’Islam e colpire la Cristianità, in una sorta di guerra santa permanente.
Proprio Tripoli, Tunisi, Algeri diventano il covo e il punto di partenza prediletto delle navi dei pirati barbareschi che, con il benestare del governatore locale, seminano il panico in mare e in terra.

Oltre a ricevere quote di bottino, l’Impero Ottomano ottiene numerosi vantaggi indiretti: indebolire le economie europee, danneggiare luoghi di culto cristiani, mantenere nel terrore le popolazioni.

Tra le fila della marina turca è sempre più difficile distinguere tra le navi pirata e le navi da guerra vere e proprie: spesso gli abilissimi capitani delle prime diventano poi ammiragli delle seconde, con una rapida e sfolgorante carriera.

Ma come si muovevano questi terribili predoni?

I pirati barbareschi di solito attaccavano soltanto durante la bella stagione, preferendo utilizzare imbarcazioni veloci e relativamente leggere che mal sopportavano il mare grosso.

Le incursioni avevano come fine non solo il saccheggio ma anche il rapimento di persone da ridurre in schiavitù o usare per chiedere riscatti.

Amavano colpire i paesi costieri all’alba o durante la notte, per sorprendere i locali nel sonno. L’addestramento militare gli consentiva di essere rapidi ed efficaci nell’oscurità: spesso scendevano dalle navi anche un migliaio di uomini che sapevano muoversi in modo perfettamente organizzato e che si spingevano velocemente per diversi chilometri nell’entroterra.

Le cronache parlano di numeri allucinanti, paesi interi ridotti in poche ore a villaggi fantasma. Qualche esempio? Nel 1546, a Laigueglia, i pirati prelevano 250 persone su una popolazione di circa 350; nel 1551, a Riva Ligure, rapiscono quasi tutti gli abitanti; nel 1637, periodo di relativo esaurimento del fenomeno, 340 persone vengono deportate da Finale Ligure e una ventina uccise sul posto.

Quando si sentivano particolarmente sicuri, i pirati si fermavano addirittura sulle spiagge prima di ripartire, aspettando eventuali familiari decisi a trattare subito i riscatti. Più spesso gettavano l’ancora a poca distanza dalla costa issando una bandiera nera che segnalava la loro intenzione di effettuare le eventuali transazioni a bordo, nel rispetto degli intermediari.
Ma cosa succedeva a chi non poteva pagare subito?

Merce da riscattare

La prima destinazione di chi veniva deportato in Africa erano i cosiddetti “bagni”, non certo località termali ma terribili luoghi di detenzione di massa in cui sopravvivere era impresa ardua.

Scarsità di cibo, totale mancanza di igiene e ogni genere di maltrattamento da parte dei carcerieri erano all’ordine del giorno.

I detenuti venivano quotidianamente minacciati o picchiati per indurli ad abiurare la fede cristiana. I più fortunati, se avevano le competenze per eseguire lavori particolari, potevano essere utilizzati fuori dai bagni come schiavi.

Chi non moriva di stenti veniva portato via dalle numerose epidemie, la speranza era che qualcuno pagasse il riscatto prima che questo accadesse.

Sembra strano ma, in un epoca così poco globalizzata rispetto ad oggi, si riusciva in qualche modo a comunicare tra i due continenti, seppure con molta lentezza, per organizzare le trattative. A muoversi erano le famiglie dei malcapitati, ma non mancava mai il supporto dell’intero paese, con punti di riferimento la parrocchia e soprattutto le Confraternite.

Tramite collette, elemosine, lasciti testamentari si raccoglievano con fatica le somme necessarie.

Spesso era necessario rivolgersi a intermediari e poteva capitare di mettersi nelle mani sbagliate, finendo per perdere i soldi e non riuscire a liberare i rapiti.

Le cronache dei riscatti raccontano che molte volte venivano riportati in Africa prigionieri turchi da scambiare, quindi anche gli europei non erano estranei alla pratica del rapimento, che però avveniva quasi esclusivamente tramite assalti sul mare alle navi nemiche, difficilmente sulla terra.
Il Mediterraneo dell’epoca insomma non era proprio un posto adatto alle crociere...

I religiosi, soprattutto frati, svolgevano un ruolo fondamentale nell’alleviare le sofferenze dei reclusi. Venivano infatti organizzate vere e proprie missioni umanitarie più o meno tollerate dai Barbareschi, che servivano anche ad informare le comunità della situazione dei prigionieri. Di solito non si occupavano direttamente dei riscatti, ma se era necessario potevano fare da intermediari.

La Repubblica di Genova inizia ad interessarsi del problema solo verso la fine del Cinquecento, chiedendo ai vari paesi di fornire elenchi degli schiavi deportati e istituendo la figura del Magistrato per il riscatto degli schiavi, che controllava le trattative e cercava di farsi carico dei casi più disperati di chi non aveva soldi o parenti in patria.

I rinnegati

Chi non veniva riscattato aveva forse solo un’altra possibilità di sopravvivere. Ma era una scelta spesso difficile.

Dopo anni di torture sia fisiche che psicologiche, perse le speranze di tornare a casa, molti finivano per diventare musulmani.

Oltre a porre termine alle proprie sofferenze, chi si rinnegava otteneva vantaggi davvero sorprendenti.

Dopo la conversione il prigioniero diventava membro della nuova comunità a tutti gli effetti e aveva la possibilità di ambire, se ne aveva le capacità, a qualsiasi posizione sociale.

La società musulmana era infatti estremamente meritocratica e poco gerarchizzata rispetto a quella dell’Europa cristiana, soprattutto cattolica: chi dimostrava il proprio valore non aveva limiti.

Il corsaro Ulugh Alì, per fare un esempio, era un calabrese catturato da giovane e diventato anni dopo la conversione uno dei più importanti comandanti della flotta turca. Il padre del Barbarossa, il più grande ammiraglio turco della storia, era un greco che aveva abiurato la fede cristiana. Tantissimi convertiti diventavano senza problemi funzionari di altissimo livello.

Purtroppo però, il passaggio da prigioniero a “cittadino” turco comportava quasi sempre un penoso tradimento verso la propria vita passata. Il convertito doveva infatti dare una dimostrazione di buona fede che solitamente consisteva nel partecipare a qualche incursione contro le terre d’origine.

La grande organizzazione di cui i Barbareschi davano prova durante le loro sciagurate imprese era dovuta anche alle preziose informazioni date dai rinnegati, che conoscevano i litorali, gli approdi e il territorio.

La difesa

La Repubblica di Genova inizialmente non da un grande aiuto alle popolazioni costiere. Si limita a controllare i punti più strategici per i suoi traffici, ben sapendo che i pirati si sarebbero tenuti a distanza dalla città della Lanterna.

Dopo il 1540 la situazione peggiora a causa dell’intesa tra la Francia e l’Impero Ottomano, in funzione anti-spagnola. Nizza, all’epoca di proprietà dei Savoia, subisce l’assedio dell’imponente flotta turca comandata dal grande Khayr al-Dīn detto il Barbarossa. La stessa città di Genova, colta di sorpresa, deve pagare per non venire attaccata.

Gli approdi francesi in base a questa alleanza diventano una sorta di porto franco per i Barbareschi che negli anni seguenti, dopo aver saccheggiato la Liguria, si ripareranno spesso lì.

La Superba decide allora di organizzare un pattugliamento in mare coordinato dal cosiddetto Magistrato delle galee. Le imbarcazioni però sono un quarto di quelle previste e questo servizio di difesa ha poco effetto.

La musica cambia quando negli ultimi decenni del Cinquecento si costruiscono mura intorno alle città, forti e torri d’avvistamento, per una difesa costiera finalmente coordinata. La soluzione al problema era sulla terra, non in mare.

Genova non è prodiga di aiuti in denaro, e quando mai, ma invia ingegneri militari per completare le opere e soprattutto commissari per organizzare la protezione dei vari nuclei abitati.

La gravità della situazione permette di superare le iniziali diffidenze verso i genovesi e le divisioni tra le varie comunità.

Con la formazione di un sistema di avvistamento capillare supportato da gruppi armati addestrati, formati spesso dagli stessi cittadini, per i pirati diventa sempre più difficile portare a casa il bottino. Molte volte sono costretti a fuggire limitandosi a colpire solo le abitazioni isolate.

Nel 1571 la vittoria della flotta cristiana nella Battaglia di Lepanto migliora decisamente la situazione delle coste liguri per almeno una decina d’anni.
La disfatta navale segna un momento di grande crisi dell’Impero Ottomano che perde gran parte della sua terribile flotta. Le divisioni nel fronte cristiano non permetteranno però di dare il colpo decisivo ai Turchi e nel giro di pochi anni il Sultano riuscirà a riorganizzarsi.

Gli attacchi ai paesi costieri riprenderanno così vigore e finiranno solo a metà del Seicento, quando ormai lo sviluppo di armi da fuoco sempre più affidabili rendeva troppo pericolosi gli sbarchi.

Anche i Barbareschi inizieranno allora a prediligere gli assalti ad altre navi, la cosiddetta corsa, fenomeno che durerà addirittura almeno fino alla metà dell’Ottocento.

Spero che questo viaggio nel passato della Liguria via sia piaciuto, ora magari quando vedrete le torri anti-barbaresche penserete a quanto movimentata doveva essere la vita in quel periodo e a quanti pericoli la gente era costretta ad affrontare.

E che magari le invasioni estive di turisti di cui tanto ci lamentiamo alla fine sono meglio di quelle dei Barbareschi...

Buona Liguria!

Alberto Berruti si è appassionato fin da piccolo alle bellezze della Liguria, per colpa un pò dei genitori e un po' di Rosalba, la sua maestra delle elementari. Dal 2016 cura il blog Tesori del Ponente, dove racconta luoghi più o meno conosciuti delle province di Imperia e Savona. Collabora come guida turistica abilitata con la scuola ANWI di Arma di Taggia, che associa il Nordic Walking alla scoperta del territorio.

Redazione

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