Lo storico matuziano Andrea Gandolfo, ci propone un breve excursus sulle vicende storiche dell’incantevole borgo di Coldirodi, attuale frazione di Sanremo, dalla lontana età del ferro ai giorni nostri.
Durante l’età del Ferro il territorio dell’attuale Coldirodi divenne oggetto di una primitiva frequentazione da parte di uomini dediti prevalentemente alla caccia e alla pastorizia, i quali eressero un sistema di fortificazioni costruite con muraglioni a secco in stretto contatto tra di loro sulla sommità dei monti, dette comunemente castellari e destinate a rappresentare una valida difesa dei terreni coltivati, dei pascoli, dei boschi e delle principali vie di comunicazione dalle incursioni di predoni e tribù nemiche. Alcuni resti di un presunto castellaro preromano nei pressi dell’odierna Coldirodi sono stati rinvenuti sul monte detto Mucchio di Scaglie, poco sopra Capo Nero, dove è stato ritrovato materiale ceramico di tipo campano risalente all’età repubblicana e di tipo preromano ad impasto, che testimonia la presenza in loco di un antico castellaro o anche di una torre di vedetta poi crollata, mentre altri reperti archeologici ritrovati nella zona attestano in modo inconfutabile la frequentazione umana del monte almeno fino al IV secolo d.C. Un’altra fortificazione simile a quest’ultima potrebbe essere stata ubicata nei pressi della Croce di Padre Poggi, sopra l’abitato collantino, dove sono venuti alla luce vari reperti in ceramica risalenti all’incirca allo stesso periodo di quelli rinvenuti sopra Capo Nero. Forse ricollegabili a tali castellari sono pure i resti di una grande muraglia scoperti in località Costa Bevino, situata a sud del Monte Caggio all’interno di una fitta boscaglia; essi costituivano con ogni probabilità un ampio recinto di un villaggio che doveva essere verosimilmente localizzato nella zona. Altri reperti risalenti forse all’età preromana o romana furono rinvenuti nel 1796 dal collantino Giacomo Semeria, il quale, scavando nelle sue terre ubicate nei pressi di Capo Pino, trovò diverse monete antichissime, pignatte rotte, vasi inverniciati ed una volta sotterranea, mentre, alcuni anni prima, un altro collantino, Giovanni Maria Rambaldi, praticando degli scavi nello stesso luogo, aveva portato alla luce dei ruderi, una macina da frantoio ed il banco di un antico strumento a vite destinato alla spremitura delle olive.
Tra il IX e il X secolo molti abitanti della Villa Matutiana, l’antica Sanremo, per sottrarsi al rischio rappresentato dalle sempre più frequenti incursioni saracene, si erano rifugiati sui monti circostanti il villaggio costiero impiantandovi nuovi centri abitati, tra i quali vi dovette essere anche il primitivo nucleo della futura Coldirodi, le cui origini sono forse collocabili soltanto qualche secolo più tardi in riferimento alle vicende del paese di Poipino, esistente nel XII secolo nei pressi di Capo Pino, dove, nel 1130, un contingente dell’esercito genovese, volendo sottomettere Ventimiglia, vi fece erigere una fortezza; per opporsi all’invasore, il conte Oberto di Ventimiglia inviò allora i suoi figli Filippo e Raimondo con uomini di Poipino e Baiardo contro le truppe genovesi, che però ebbero facilmente ragione di loro e li costrinsero a giurare perpetua fedeltà al Comune e alla Chiesa di Genova. Il paese di Poipino venne forse distrutto e gli abitanti si frazionarono allora in piccoli gruppi che si stanziarono sulle colline circostanti; il nucleo più numeroso si insediò sul colle considerato come il principale per la sua posizione strategica, che fu subito denominato La Colla e sul quale le prime famiglie cominciarono a costruire delle casupole, che avrebbero mantenuto il nome di quegli antichi casati, tra i quali i Sapia, i Maso, i Boboni, gli Straforelli e soprattutto i Semeria, che, per essere i più numerosi e i più benestanti, fecero anche costruire una torre, di cui sono ancora visibili le fondamenta. Intorno agli inizi del XV secolo il borgo cominciò ad assumere una certa consistenza, come attestato dalla presenza, fin dal 1319, di una cappella dedicata a San Sebastiano e di una torre di difesa, poi distrutta nel 1616, che dipendevano, al pari di tutto il territorio circostante, dalla parrocchia di San Siro di Sanremo sotto la giurisdizione ecclesiastica del vescovo di Albenga. Verso la fine del Quattrocento, ingranditosi notevolmente il nucleo abitato e aumentata nello stesso tempo considerevolmente anche la popolazione collantina, i due massari della chiesa di San Sebastiano Giacomo Anfosso e Giovanni Calvino chiesero al vescovo di Albenga l’autorizzazione alla separazione della loro chiesa succursale da quella di San Siro. Sentito il parere favorevole del preposito di San Siro Giovanni Battista Gioffredo, il vescovo ingauno Leonardo Marchese, considerato il fatto che i bambini, portati d’inverno al battesimo, potevano morire lungo il tragitto e che i Sacramenti erano amministrati con grandissimo disagio, accolse la richiesta dei Collantini. Il 9 gennaio 1494 il vescovo Marchese eresse quindi a parrocchia la chiesa di San Sebastiano (i cui confini con la chiesa di San Siro furono stabiliti il 12 novembre successivo) e ordinò nello stesso tempo che i sindaci, i massari e gli abitanti della Valle di Rodi avrebbero dovuto pagare un canone annuo di otto lire al parroco di Sanremo, oltre a corrispondere due libbre di cera al Capitolo di San Siro in occasione della festa di San Siro, nel giorno di San Romolo, nel Sabato Santo e in occasione della Pentecoste. Si pattuiva inoltre che, per le suddette ricorrenze, il rettore di San Sebastiano si sarebbe recato a Sanremo per aiutare il parroco di San Siro nella celebrazione delle messe e delle altre sacre funzioni, mentre il parroco di San Siro sarebbe stato a sua volta obbligato a provvedere in quei giorni al vitto del rettore di San Sebastiano e avrebbe potuto avvalersi della facoltà di recarsi, qualora lo avesse desiderato, presso la chiesa di San Sebastiano per celebrarvi la Messa conventuale. Per provvedere la nuova chiesa del necessario reddito, tutti i capifamiglia collantini si accordarono inoltre a corrispondere un canone annuo, detto decima della chiesa, per distinguerlo da quello spettante alla parrocchiale, che consisteva in un litro d’olio e in un motulaio di grano, versati dai massari della chiesa e registrati nell’archivio parrocchiale. La riscossione delle decime avrebbe tuttavia provocato incomprensioni e controversie tra i Collantini e il prevosto e i canonici di San Siro, soprattutto nel corso del Seicento, a causa della diminuzione delle tasse ecclesiastiche versate dai contadini collantini sui terreni messi a coltura in tempi più recenti rispetto a quelli dei loro antenati.
A partire dalla fine del XV secolo Coldirodi rimase comunque sempre dipendente dall’amministrazione comunale di Sanremo, come documentato da un atto del 1516, dal quale si evince che la Colla era completamente soggetta alle leggi, agli Statuti e al Magnifico Parlamento di Sanremo, ad eccezione della giustizia civile e criminale che era amministrata dal podestà e poi dal commissario genovese residente a Sanremo. Nella prima metà del Cinquecento il paese dovette inoltre subire le drammatiche conseguenze dei violenti assalti da parte dei pirati barbareschi, che sbarcarono più volte sulle nostre coste aggirandosi minacciosi per le campagne, penetrando nei villaggi, razziando viveri e animali e, purtroppo, portando via prigionieri molti abitanti, tra i quali anche donne e bambini. La prima incursione dei Barbareschi nel territorio di Coldirodi si verificò l’8 agosto 1543, quando alcune navi della flotta turca guidata da Ariadeno Barbarossa, ancorata allora nella baia di Nizza in attesa di attaccare la città sabauda, nemica in quanto alleata della Spagna, sbarcarono centinaia di pirati sulla costa sanremese, che, dopo essere stati respinti dalla popolazione locale, si diressero verso Coldirodi, dove depredarono le campagne del paese facendo anche numerosi prigionieri dei quali si sarebbero perse le tracce per il rifiuto da parte di Barbarossa di accettare le relative offerte di riscatto avanzate dai Sanremesi. Pochi anni dopo, tuttavia, i Turchi ritornarono a colpire la zona di Coldirodi con una flotta di galee cariche di pirati algerini al comando di Dragut, che sbarcarono nella baia di Ospedaletti il 25 giugno 1555, dirigendosi poi verso Coldirodi, dove fecero prigionieri molti abitanti del paese. Subito dopo i corsari approdarono nella rada di Sanremo in località San Rocco, offrendo alle autorità locali la possibilità di riscattare immediatamente i prigionieri catturati poco prima a Coldirodi; iniziarono quindi delle serrate trattative tra i pirati algerini e il podestà Alessandro Giustiniani, al termine delle quali molti Collantini riuscirono a riscattare parecchi loro sfortunati compaesani pagando forti somme di denaro, ma le operazioni furono bruscamente interrotte a causa di un forte vento che costrinse i Turchi a ritornare sulle loro navi e a ripartire alla volta di Antibes, dove continuarono le difficili trattative per il riscatto dei rimanenti prigionieri, che sarebbero stati quasi tutti liberati pochi mesi dopo grazie anche all’intervento di alcuni mercanti di Nizza e allo stesso Consiglio comunale di Sanremo, che aveva deliberato di destinare a questo scopo i proventi della vendita dei pascoli comunali di Monte Bignone. Soltanto tre prigionieri non poterono essere riscattati e finirono purtroppo i loro giorni come schiavi.
Dopo tale drammatico episodio il Consiglio comunale matuziano autorizzò i Collantini a costruire un bastione sul loro capo per una migliore e più concreta difesa del borgo da futuri e prevedibili attacchi da parte dei barbareschi. Nel novembre del 1558 il Senato genovese aveva intanto accolto la richiesta avanzata dalla comunità della Colla per erigere una struttura difensiva contro le incursioni dei pirati; due anni dopo furono quindi costruite quattro torri a difesa e avvistamento dei barbareschi sotto la direzione del cavaliere di Rodi collantino Tommaso Rossi. Nel 1563 il territorio di Coldirodi fu nuovamente devastato da una masnada di corsari turchi, che si sarebbero ripresentati nel 1594 catturando sessanta Collantini, poi rilasciati dietro il pagamento di un riscatto pari a 8000 lire; a seguito di tale ennesimo attacco barbaresco, il Consiglio comunale di Sanremo decise allora di costruire una torre quadrata a difesa della costa, il futuro forte di Ospedaletti, poi terminato nel 1597, creando nello stesso tempo un nuovo funzionario comunale, il Magistrato per la redenzione degli schiavi, incaricato di espletare e coordinare le complesse procedure per la liberazione dei prigionieri, tra i quali numerosi Collantini, ancora in mano ai pirati barbareschi. Nonostante tali precauzioni, i corsari turchi sarebbero ancora tornati nel 1637 e nel 1656 facendo numerosi prigionieri, poi riscattati qualche tempo dopo in Provenza, dove in parte si stabilirono. La persistenza del fenomeno proseguì anche nel secolo successivo fino ai tempi della Repubblica Ligure, tanto che nel 1797 il comune collantino aveva approvato le spese sostenute in occasione di una spedizione contro i Barbareschi e nell’anno seguente il magistrato per il riscatto degli schiavi era ancora in carica e molto attivo.
Intanto la comunità della Colla continuava a dipendere amministrativamente da quella di Sanremo, tanto che i Collantini dovevano chiedere sempre l’autorizzazione ai governanti matuziani per qualsiasi iniziativa, come accadde ad esempio nel 1635, quando gli abitanti del borgo, per condurre in paese l’acqua potabile, dovettero chiedere il permesso al Consiglio comunale di Sanremo, che approvò il progetto e nominò gli incaricati a dirigere il lavoro e a ripartire le spese tra le varie famiglie collantine, che ricorsero al Consiglio sanremese anche nel 1683, nel 1721 e nel 1733 per ottenere delle misure sanzionatorie contro coloro che avessero danneggiato l’acquedotto tramite la corresponsione della somma di 1000 lire, alla quale il Consiglio comunale matuziano aggiunse 1100 lire. Nel 1749 il commissario generale di Sanremo Gio Batta Raggio, ricevuto dalle autorità della Repubblica l’incarico di provocare il distacco di Coldirodi da Sanremo, servendosi della collaborazione di un prete, certo Gio Batta Rosso, fece spargere la voce che se i Collantini avessero voluto evitare la probabile rovina derivante dalle durissime contribuzioni imposte dagli Austro-sardi dopo la fine della guerra di Successione austriaca che aveva coinvolto direttamente anche il Ponente ligure, essi avrebbero dovuto promuovere la separazione di Coldirodi dalla città di Sanremo. Nel frattempo continuavano a serpeggiare in paese profonde tensioni e vivaci proteste volte ad ottenere l’emancipazione della Colla da Sanremo, guidate da un certo Gio Pietro Musso e sfociate nel ricorso presentato dai Collantini nel marzo 1752 al commissario Giuseppe Maria Doria, nel quale chiedevano formalmente la separazione del borgo dalla città matuziana per tutta una serie di motivi che vennero minuziosamente elencati nel documento inviato al funzionario della Repubblica. Tra le varie motivazioni addotte dai Collantini per giustificare la loro richiesta vi era il fatto che le autorità sanremesi non concedevano ai rappresentanti della frazione la facoltà di partecipare alle sedute del locale Parlamento; i censori di Coldirodi avevano poteri assai limitati; il pagamento delle gabelle al Comune era particolarmente infruttuoso in quanto le autorità sanremesi non si preoccupavano nemmeno di fornire l’assistenza medica agli abitanti del paese; i Collantini dovevano inoltre provvedere autonomamente alle spese ordinarie di manutenzione dell’orologio, della fontana, delle chiese e delle campane e l’obbligo per gli agricoltori collantini di vendere i limoni alla tedesca al prezzo di venti soldi in meno che a Sanremo. I Collantini si lamentarono inoltre del fatto che il Comune di Sanremo contraeva debiti superiori alle sue capacità economiche, mentre essi non avevano mai potuto usufruire dei benefici derivanti dall’istituzione del Magazzino dell’abbondanza, non erano mai stati difesi dalle truppe sanremesi in caso di aggressioni straniere e, soprattutto, temevano fortemente che il Comune matuziano volesse introdurre nuove gabelle alle quali non avrebbero potuto far fronte a causa delle misere e precarie condizioni e sociali in cui versava il paese.
Dopo aver attentamente esaminato la pratica, le autorità genovesi decretarono quindi il 1° febbraio 1753 la separazione di Coldirodi da Sanremo, conferendo al commissario generale di Sanremo la facoltà di nominare i quaranta componenti del futuro Parlamento collantino, che sarebbero stati affiancati da due consoli, due sindaci, due padri del Comune e due censori, oltre al potere di stabilire i limiti tra le due comunità e tracciare la linea di confine tra i rispettivi territori. Con l’indipendenza da Sanremo, la Repubblica concesse alla comunità di Coldirodi anche il diritto di fregiarsi di uno stemma proprio, costituito da un leone rampante sull’ulivo, che simboleggia il tipo di coltivazione maggiormente diffusa mentre il leone è un elemento rappresentativo concomitante con quello di Sanremo, da una rosa con tre monticelli, la prima richiamante il tipo di floricoltura più praticata e i secondi i caratteri prevalenti dell’insediamento, da una croce bianca in campo rosso e infine da una corona che sovrasta l’emblema. La notizia della deliberazione assunta dal governo genovese aveva intanto scatenato un autentico putiferio a Sanremo, dove gli amministratori comunali manifestarono immediatamente al Senato di Genova la loro nettissima contrarietà alla separazione dal Comune della frazione collantina, che era da sempre unita al capoluogo sia dal punto di vista temporale che da quello spirituale. Il Senato non revocò tuttavia la decisione già presa e inviò a Sanremo il colonnello e cartografo Matteo Vinzoni con l’incarico di procedere alla delimitazione dei confini tra le due comunità. Dopo l’arrivo di Vinzoni a Sanremo il 6 giugno del ’53, scoppiò un vero e proprio tumulto popolare, che sarebbe passato alla storia come la «rivoluzione di Sanremo del 1753», poi repressa duramente dalle truppe genovesi guidate dal generale Pinelli nel giugno dello stesso anno. Nell’ottobre successivo, quando gli echi e le dolorose conseguenze della rivoluzione erano ancora estremamente vivi e scottanti, il colonnello Vinzoni tornò a Sanremo e riprese il lavoro di delimitazione confinaria tra la Colla e la città matuziana avvalendosi della collaborazione di alcuni periti, insieme ai quali fissò 64 piloncini costruiti tutti in malta, che sancivano i confini collantini fino al Prato di Bignone e cioè al territorio appartenente al Comune di Baiardo. Sempre nel 1753 venne iniziato l’estimo di tutto il territorio della Colla, che fu terminato e firmato nel giugno 1754 non senza però evitare l’insorgere di malcontenti tra Collantini e Sanremesi in merito alla divisione dei beni comunali in comproprietà, tanto da costringere il commissario generale di Sanremo ad intervenire più volte per dirimere le controversie e favorire la stipulazione di accordi tra le parti interessate sulla proprietà di terreni contesi. Dopo una nuova controversia sorta nel 1787 con Sanremo in merito al pagamento delle decime in favore della chiesa di San Siro, da cui i Collantini furono esentati, anche la zona di Coldirodi venne coinvolta nella guerra sferrata dalle truppe francesi, che nell’aprile 1794 erano penetrate nella Liguria occidentale instaurando un regime di occupazione che si sarebbe protratto per vari anni con pesanti conseguenze per la popolazione civile dei principali centri rivieraschi, tra le quali soffrì in modo particolare proprio quella di Coldirodi, costretta nel 1795 a contrarre un debito di 26.000 lire per acquistare ingenti quantitativi di grano; non potendo però pagare la somma dovuta entro il termine fissato per l’eccessiva miseria, molti Collantini furono costretti ad abbandonare il paese, tanto che il commissario di Sanremo Spinola, vivamente preoccupato da questo esodo di massa, chiese al governo centrale di emanare un provvedimento che limitasse il più possibile tale progressivo e allarmante spopolamento.
Dopo la proclamazione della Repubblica Ligure nel giugno 1797, il nuovo governo democratico inviò nel Ponente Gaspare Sauli in qualità di «Commissario dell’Oltre Ponente», che il 26 luglio nominò la nuova Municipalità della Colla, cioè il gruppo di abitanti che avrebbero dovuto prendere in mano l’amministrazione comunale del paese, dove la notizia del cambio di governo era stata accolta con manifestazioni di giubilo tanto che la popolazione aveva immediatamente piantato l’Albero della libertà. Il nuovo organismo, presieduto dal «cittadino» Pier Lombardi e composto da nove membri, emanò il 26 luglio un proclama, nel quale veniva comunicata alla cittadinanza la costituzione della nuova Municipalità, che si sarebbe insediata nella Casa Nazionale insieme agli uffici del Giudice di Pace. Il giorno successivo la Municipalità collantina procedette anche alla nomina di tre Comitati: uno di Polizia, un altro degli Edili e il terzo di Economia, mentre nelle sedute del 28 e del 29 luglio furono trattate le questioni della raccolta dei limoni, della distribuzione dell’acqua per l’irrigazione e quella del taglio del fieno nei prati di Monte Bignone. Il successivo tentativo di alcuni carbonai e contadini genovesi di attuare una controrivoluzione finalizzata a ristabilire l’antico regime nobiliare ai primi di settembre del ’97 indusse il governo democratico ligure a chiedere alle varie municipalità della regione di inviare uomini per sconfiggere i ribelli, cosicché anche la Municipalità di Coldirodi, incitata dall’amministrazione centrale del Distretto di Sanremo, mandò alcuni suoi compaesani a Genova, che sarebbero tuttavia già tornati in paese il 13 settembre essendo stata domata la rivolta. In questo periodo anche a Coldirodi la vita quotidiana si adeguò al nuovo clima politico, che si manifestò tra l’altro nell’abolizione dei titoli nobiliari e di qualsiasi distinzione sociale (era ammesso soltanto il titolo di «cittadino», uguale per tutti), nell’introduzione del calendario della Rivoluzione francese e nell’uso del termine Burò per indicare la sede del Consiglio comunale. Il 2 dicembre 1797 tutta la popolazione collantina, radunata nella chiesa parrocchiale, approvò all’unanimità il testo del progetto della nuova costituzione approntato dal governo democratico della Repubblica Ligure. Pochi mesi dopo, il 22 maggio 1798, i nove membri della Municipalità di Coldirodi, guidati dal presidente Giacomo Littardi e scortati dalla forza armata munita di schioppi e polvere, partendo dalla Casa Nazionale, si recarono presso l’Albero della Libertà, dove prestarono il solenne giuramento di fedeltà alla democrazia. Il 18 aprile 1798 le autorità della Repubblica Ligure avevano intanto emanato una legge costituzionale in base alla quale Coldirodi veniva eretta a capoluogo di uno dei dieci cantoni nei quali era suddivisa la neocostituita Provincia di Sanremo, denominata Giurisdizione delle Palme e dotata di Tribunale civile e criminale. Poche settimane dopo si verificò invece un grave scontro tra repubblicani di Porto Maurizio e reazionari sabaudi di Oneglia, i quali furono sopraffatti in breve tempo, scatenando un diffuso allarme tra le autorità locali, che il 6 giugno trasmisero alla comunità di Coldirodi l’ordine di inviare subito una compagnia di cento uomini in aiuto dei Portorini. Tramontata la necessità dei soldati collantini a causa della rapida sconfitta dei Portorini, il 14 luglio successivo fu eletta la nuova Municipalità, alla cui presidenza venne scelto Giacomo Rolleri, mentre Giovanni Battista Semeria assunse la carica di segretario. Dopo un breve intervallo in cui fu ripristinato il dominio austriaco nel maggio del 1800 per via della momentanea assenza di Napoleone impegnato nella campagna d’Egitto, ai primi di giugno dello stesso anno Bonaparte riprese saldamente il controllo della Liguria, tanto che già il 12 giugno a Coldirodi era rientrata in funzione la vecchia Municipalità, presieduta da Antonio Bobone, che dovette subito affrontare la spinosa questione di una nuova richiesta di denaro avanzata dal generale Massena, alla quale si sarebbero aggiunte altre esose richieste da parte dei Francesi, tra le quali quella della fornitura di trecento quintali di grano e del pagamento di ingenti somme di denaro per sovvenzionare le forze di occupazione. Nel corso del periodo napoleonico la popolazione collantina volle anche ribadire fortemente la sua volontà di mantenere il distacco amministrativo dalla comunità di Sanremo, tanto che, quando il governo genovese fece ventilare la possibilità di una riunione di Coldirodi a Sanremo, il presidente della Municipalità della Colla Giacomo Ascenzo espresse nel dicembre 1802 la sua fermissima opposizione ad un tale progetto, dichiarando di essere piuttosto favorevole ad una unione con Bordighera, ma la temuta annessione sfumò e Coldirodi mantenne così la sua autonomia.
Con l’annessione della Liguria all’Impero francese nel 1805, anche a Coldirodi fu nominato alla guida dell’amministrazione comunale un maire, che assunse le sue funzioni per la prima volta il 23 luglio 1805 inaugurando così il periodo imperiale della storia del paese, caratterizzato peraltro da una pesante situazione economica, aggravata dai continui richiami alle armi dei Collantini, mentre quelli rimasti si vedevano costretti a vivere in misere condizioni a causa della drastica riduzione della produzione agricola e pastorale, a cui si aggiunsero gravissime carestie che falcidiarono la popolazione. Durante questi anni il paese, che faceva parte del Dipartimento delle Alpi Marittime, fu retto da un Consiglio comunale composto da dieci membri, più un sindaco e un aggiunto, come stabilito dalla legge del 28 piovoso dell’anno VIII relativa ai comuni con meno di 5000 abitanti, in base alla quale il sindaco e l’aggiunto sarebbero rimasti in carica per cinque anni, i consiglieri dieci anni, di cui però ogni cinque anni metà di loro avrebbero dovuto essere sostituiti; tutte le suddette nomine spettavano esclusivamente alla Prefettura di Nizza, il cui titolare, barone Du Bouchage, negli ultimi anni del regime napoleonico, nominò l’8 marzo 1813 Stefano Rossi e Gerolamo Bobone rispettivamente nuovo maire e nuovo segretario di Coldirodi, che avrebbero retto l’amministrazione del paese fino alla caduta di Napoleone. Nuovi contrasti sorsero intanto con la comunità di Sanremo nel 1811, quando le autorità matuziane si opposero, ma senza successo, al taglio straordinario dei boschi circostanti il paese, dalla cui vendita furono ricavate le somme occorrenti alla costruzione di nuove strade comunali e al ripristino di quelle esistenti. Sconfitto definitivamente Bonaparte a Lipsia ed esiliato all’isola d’Elba, la popolazione collantina riservò calorose accoglienze a papa Pio VII, che passò dalla Riviera nel febbraio 1814 durante il viaggio di ritorno a Roma. Giunto ad Ospedaletti l’11 febbraio, il pontefice venne acclamato tra gli altri anche dagli abitanti e dal clero collantini, che tentarono con la forza di condurre il papa a Coldirodi nella speranza che vi trascorresse la notte, ma furono sopraffatti dalla reazione dei Sanremesi, con i quali ingaggiarono una vera e propria rissa, poi sedata a stento dai gendarmi e dai militi della Guardia Nazionale. Tale episodio non va peraltro letto come segno di un profondo odio tra gli abitanti dei due paesi, ma invece come un’inequivocabile attestazione della più intima stima verso il pontefice e del disprezzo verso Napoleone da parte di Collantini e Sanremesi. Nel gennaio 1815 la Liguria entrò quindi a far parte del Regno di Sardegna e anche Coldirodi divenne un dominio sabaudo nell’ambito della Divisione di Nizza, il cui intendente generale ordinò anche la convocazione del primo Consiglio comunale sotto il nuovo regime, che venne presieduto dal capo anziano Semeria, coadiuvato da nove consiglieri. Nel maggio dello stesso anno il comprensorio sanremese fu teatro inoltre di una serie di aggressioni ai danni di cittadini inermi da parte di un branco di lupi cervieri, che uccisero anche una ragazza di Coldirodi, tanto da indurre le autorità locali ad ingaggiare una squadra di ben ventiquattro cacciatori della Valle d’Aosta per dare la caccia ai feroci felini, che furono poi sterminati grazie anche all’intervento di alcune pattuglie di volontari, unitesi ai cacciatori valdostani nell’aprile 1816, dopodiché non si registrarono più avvistamenti di lupi, né si verificarono più aggressioni a persone da parte di questi animali.
Dopo la cessione della Divisione di Nizza alla Francia nel marzo 1860, Coldirodi entrò a far parte della nuova provincia di Porto Maurizio, mantenendo lo status di Comune autonomo con Ospedaletti come sua frazione, mentre negli anni Settanta cominciava gradualmente a diffondersi la floricoltura grazie soprattutto all’iniziativa del dottore collantino Giovanni Littardi, il quale, dopo aver sradicato tutti i limoni che si trovavano in una sua proprietà alle Porrine, suscitando le proteste dei suoi genitori ancora attaccati alla coltivazione degli agrumi, decise di impiantarvi delle colture floreali, che rappresentavano ormai un’attività ben più redditizia di quella legata alla produzione e al commercio degli agrumi. Nel febbraio del 1887 anche Coldirodi fu investita dal violento terremoto che sconvolse il Ponente ligure, causando la caduta di alcuni muri di case e provocando ferite ad una decina di persone, una delle quali morì pochi giorni dopo il sisma, per le cui conseguenze lo Stato concesse ai privati un mutuo di 197.890 lire, mentre il Comune ricevette una sovvenzione pubblica pari a 94.600 lire allo scopo di finanziare le spese per lo sgombero delle macerie, il riattamento delle strade e la riparazione degli edifici pubblici e religiosi danneggiati dal terremoto. Dopo la prima guerra mondiale, durante la quale caddero numerosi Collantini, il paese perse la sua autonomia nel febbraio 1928 nell’ambito della generale riorganizzazione amministrativa attuata dal regime fascista, che declassò Coldirodi a frazione di Ospedaletti. Nel corso della successiva guerra di Liberazione anche a Coldirodi operarono gruppi partigiani, tra i quali le Squadre di Azione Patriottica (SAP), costituite nel settembre 1944, mentre nel febbraio dell’anno successivo venne istituito il CLN locale, composto da Camillo Dirico, Luigi Borgogno, Sirio Gualazzi, Francesco Renda, Francesco Zirio e Giuseppe Vizindio. Un grave episodio bellico si verificò in paese il 19 dicembre del ’44, quando i Tedeschi uccisero i partigiani Lelio Giaccaglia (Bill) e Giuseppe Caputi (Pasquale), oltre al giovane collantino Giuseppe Graziano, dopodiché procedettero al rastrellamento del borgo convogliando tutti gli abitanti nella chiesa parrocchiale e da lì a Sanremo, da dove, grazie soprattutto alla mediazione dell’allora parroco don Giovanni Battista Lanteri, sarebbero stati però fortunatamente rilasciati.
Nei primi anni del dopoguerra la comunità di Coldirodi, considerati ormai sorpassati vecchi e anacronistici dissapori e contrasti con Sanremo, ancora prima che venisse ultimata la nuova strada che la univa alla città matuziana e allo scopo di incassare una parte considerevole dei proventi della Casa da gioco sanremese, chiese, con il 90% dei consensi, di far parte del Comune di Sanremo. Il 3 ottobre 1949 il Consiglio comunale matuziano gettò quindi le basi della riannessione di Coldirodi votando, con 21 voti favorevoli, 6 astenuti e uno contrario, un ordine del giorno presentato dal consigliere avvocato Semeria, con il quale l’assise municipale sanremese, «constatata la perfetta identità di interessi» tra le due comunità, la quale faceva di Sanremo «la naturale sede dove ogni attività di Coldirodi fa capo», considerato l’apporto determinante della floricoltura collantina allo sviluppo di quella matuziana e tenuto conto dell’importanza rivestita dalle attrattive naturali e artistiche di Coldirodi per il turismo del comprensorio sanremese, diede parere favorevole all’istanza presentata dai cittadini frazionisti di Coldirodi auspicando una sollecita definizione della pratica. Sette anni dopo si giunse così all’aggregazione al Comune di Sanremo di Coldirodi, che, dopo essere stata frazione di Ospedaletti, divenne una frazione della città matuziana in esecuzione del relativo decreto emanato dal presidente della Repubblica Giovanni Gronchi. A partire dagli anni Venti, e più massicciamente dopo la fine dell’ultimo conflitto mondiale, il fenomeno dell’immigrazione di molte famiglie meridionali, e in particolare abruzzesi, aveva intanto incrementato sensibilmente la consistenza numerica della popolazione collantina, attestata oggi intorno ai 3200 abitanti, la quale, dopo essersi dedicata per secoli alla coltura di agrumi e ulivi, ma già all’avanguardia nell’attività floricola, si impegnò con grande fervore e operosità nella floricoltura, oggi divenuta di gran lunga la principale attività economica del paese, trasformando la collina in una distesa di serre, che andarono a sostituirsi gradualmente ai terreni adibiti all’olivicoltura, che, nel momento della sua massima espansione, consentiva il funzionamento di ben trentadue frantoi a motore e quindici azionati con sistemi idraulici. Da segnalare infine il comparto turistico, che può avvalersi oggi di una discreta ricezione alberghiera e di alcuni ristoranti in grado di offrire alla loro numerosa clientela la varietà di una cucina ricca di piatti tipici liguri ed abruzzesi, meta soprattutto di comitive domenicali e scelti di frequente dagli sposi di tutta la provincia di Imperia per i pranzi nuziali.