Lasciare Imperia a 15 anni, imbarcare su una nave e capitare nel bel mezzo del sogno americano. Il “nuovo mondo”, dove puoi aprire un ristorante, venderlo e occupare cariche prestigiose, di quelle che ti fanno essere a capo di un ufficio ai piani alti di New York ed esattamente al 66°di una delle due torre gemelle. Essere travolti da un atto di terrorismo e continuare a vivere. Non è la scenografia di un film sul 11 settembre con Nicholas Cage, ma la vera storia di Pietro Riva, da Imperia a Long Island e New York.
Sei partito da Imperia a 15 anni e da quando ne avevi 21 vivi negli Stati Uniti. Come è andata? Mio padre era di Dolcedo e mia mamma è cresciuta a Caramagna. A 15 anni ho lasciato Imperia ed ho iniziato a lavorare sulle navi da crociera; a 17 anni ho conosciuto quella che sarebbe diventata mia moglie. Nel frattempo venni assunto all'Alitalia, ma a seguito di uno sciopero i piú giovani vennero sospesi temporaneamente; aspettai di essere richiamato per quasi un anno. Non arrivando nessuna conferma dopo mesi salpai di nuovo sulle navi da crociera, avevo 21 anni. Solo qualche anno dopo ho scoperto che il giorno il cui presi l'aereo per imbarcarmi, arrivò il telegramma dell'Alitalia dove venivo convocato. Mia mamma aveva paura degli aerei e me lo volle nascondere. Una sera, dalla nave, chiamai la mia fidanzata e le chiesi per telefono di sposarmi. Rispose di si, sbarcai e ci trasferimmo tutti e due a Long Island.
Quale fu il tuo primo lavoro negli Stati Uniti? Per prima cosa presi il diploma: in Italia ero iscritto all'Istituto Alberghiero ma non lo completai. Erano gli anni '70 lavorai dapprima come assistente e poi come direttore in un Country Club per 10 anni. Decisi poi di aprire il mio primo ristorante che andò molto bene e all'apice del successo decisi di vendere, quando mi venne offerto di dirigere 4 club privati a Manhattan. Ero alle dipendente di Leona Helmsley, la miliardaria famosa per aver lasciaro 12 milioni di dollari al cagnolino. Ogni locale serviva in media 600 persone al giorno.
Nei tuoi lavori ti sei sempre occupati di ristorazione. Hai importato qualcosa di imperiese? Quando lavoravo al country club, feci preparare per una cena speciale degli gnocchi con il pesto. Il Presidente mi riprese dicendo che sembrava un piatto su cui avessero vomitato. Qualche anno più tardi, quando venne nel mio ristorante, che nel frattempo aveva ottenuto 3 stelle dal New York Times, mi chiese proprio lo stesso piatto, vantandosi con i commensali che da me si mangiava il miglior pesto del mondo.
La cucina ligure è apprezzata a New York? Non sono in molti a cucinarla. Ho insegnato ai miei chef la ricetta dei ravioli di bietole, come la faceva mia mamma e i clienti ne andavano pazzi. Quello che ancora adesso non riesco a far apprezzare è la farinata, a meno che non sia chiusa in un panino e venduta come felafel.
Che rapporto hai con Imperia? Ora che non c'è più mia mamma non ho molti motivi per tornare. Nonostante tutto è sempre casa mia, ma ogni volta che ci sono vedo qualche problema in più. Fossi rimasto qui non so cosa avrei fatto, forse avrei aperto un ristorante, ma non sono fatto per essere sedentario, per cui non potrei proprio dire quale sarebbe stato il mio futuro imperiese. Di Imperia però mi manca l'aria, il caffè gli amici. Queste cose non le trovi nemmeno a New York.
Qual è la più grande soddisfazione della tua vita? Essere partito da qui senza un soldo, arrivare in America ed essere nessuno, ma avere oggi due figli con una posizione di rispetto, a cui ho potuto far frequentare le migliori università del Paese. Questo è il mio successo.
L'11 settembre eri nel tuo ufficio in una delle torri gemelle. Come lo ricordi? Nel 2001 lavoravo per una nota banca americana di cui curavo la ristorazione, i pranzi ufficiali e quelli per clienti vip. I nostri uffici erano al 66° piano della torre che fu colpita per seconda. Quando il primo aereo colpì, sentimmo un boato enorme e ricordo ancora di aver avuto il tempo di chiudere la cassaforte, prima che mi facessero evacuare. Io e i miei colleghi scendemmo a piedi fino al 42° piano, pensando si trattasse di un terremoto o qualcosa di simile. In quel momento anche la nostre torre venne colpita. I restanti piani furono un incubo ma riuscimmo ad arrivare fuori; corsi e quando mi fermai per prendere fiato vedevo il mio palazzo che si stava sgretolando. Ricordo ancora che chiesi alla polizia cosa fosse successo e nessuno riusciva a capire che, chi si trovava all'interno della torre ed era riuscito ad uscirne vivo, non aveva ancora capito niente. Solo allora mi dissero degli aerei. Non sono mai più riuscito a tornare in quel posto. I primi mesi l'attentato, quando arrivavo a New York e scendevo dal treno, si sentiva solo l'odore di carne bruciata e polvere ovunque. Ancora adesso non riesco a tornarci.
Pietro ora è in pensione, trascorre le estati a Long Island e gli inverni in South Carolina, dipingendo. “Non esiste l’America. È un nome che si dà a un’idea astratta” diceva Henry Miller. Per Pietro l'America non solo esiste, ma è il Paese in cui tutte le sue idee stratte sono diventate concrete.