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In Breve

LA VERA STORIA DI OSCAR RAFONE | 31 luglio 2016, 07:00

La vera storia di Oscar Rafone: Lei aveva molto da difendere (cap.23)

Pubblichiamo ogni domenica il libro di Enzo Iorio, suddiviso per capitoli, per offrire a tutti un momento culturale nella 'giornata on line'

La vera storia di Oscar Rafone: Lei aveva molto da difendere (cap.23)

Al mattino ci svegliavamo presto. Andavamo a lavarci al laghetto dietro la casa, dove il torrente faceva una pausa e si allargava in una pozza che sembrava un piccolo lago. L'acqua era limpida e gelida. Restavamo delle ore a schizzarci e a rincorrerci tra le rocce. Il sole saliva tardi, ma quando arrivava dopo aver superato le montagne ci trovava distesi e abbracciati, pronti per farci arrostire e poi per rituffarci in acqua. A volte vedevamo passare qualcuno che risaliva il torrente per andare a pescare, ma era facile non farsi vedere. Io ero sicuro che non mi stesse cercando nessuno perché mio padre avrebbe preferito preoccuparsi e bestemmiare verso il cielo per parecchi giorni prima di andare a denunciare la mia scomparsa, per paura dei carabinieri e dei servizi sociali. Invece Zamina era sicura al cento per cento che suo padre aveva ordinato — con adeguate minacce — a tutta la famiglia di ritrovarla. Soprattutto per quel motivo restavamo tutto il giorno al laghetto o nascosti dentro la casa abbandonata. Solo di sera, quando calava il buio, Zamina andava, come diceva lei, a fare la spesa. Non so di preciso dove andasse, ma tornava sempre con un sacco di roba da mangiare e da bere. Non più le lasagne come la prima sera, visto che usciva in un'ora in cui i negozi erano ormai chiusi, ma cose comunque buonissime. — Ma le rubi, queste cose? — le chiesi una volta.

— Certo, qual è il problema?

— Forse..., che non è roba tua?

— Tutto quello che avete voi gagé è roba nostra, se ce lo sappiamo prendere.

— Ma non hai paura che invece un giorno prendano te?

— Sono troppo brava, non mi farò prendere mai.

Lo diceva con una sicurezza che non ammetteva repliche. Quando un'altra volta, sullo stesso argomento, le feci notare che a causa di quei comportamenti gli zingari — i sinti, gli uomini, quelli veri, mi corresse lei — avevano una pessima reputazione tra le persone, mi rispose semplicemente che invece per lei e per la sua gente eravamo noi gagi a essere considerati pessimi.

— Ma come fate — disse — a vivere tutta la vostra vita sempre nello stesso posto e tra quattro mura di cemento, a essere schiavi di qualcuno per lavorare, e a lavorare tutto il giorno, tutti i giorni. Siete schiavi! Noi invece siamo liberi. E derubarvi è un nostro diritto.

Per convincermi mi raccontò che secondo la sua gente era stato dio stesso a donargli quel diritto per premiare quel rom che aveva rubato uno dei chiodi destinati alla crocifissione di Gesù.

Quando parlava di queste cose diventava serissima e sembrava allontanarsi da me, anche fisicamente. Per qualche istante sembrava che lei non fosse più accanto a me; come se noi due fossimo completamente estranei. Forse era l'effetto di quelle parole, noi e voi, a farmi provare quella sensazione di allontanamento. Se ne accorse pure lei, e quella volta, alla fine del suo sfogo, mentre io tenevo gli occhi bassi, aggiunse: — Comunque non rubiamo mai ai poveri.

Avrei voluto risponderle che i poveri hanno poco da farsi rubare, ma tacqui. Non sarebbe servito a niente, lei aveva molto più di me da difendere — almeno qualche migliaio di anni di storia del suo popolo — e aveva intenzione di farlo senza sconti per nessuno. Tacqui anche per un altro motivo: avevo voglia di baciarla.

Enzo Iorio

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