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In Breve

LA VERA STORIA DI OSCAR RAFONE | 17 luglio 2016, 06:00

La vera storia di Oscar Rafone: Parole che mi facevano paura (cap.21)

Pubblichiamo ogni domenica il libro di Enzo Iorio, suddiviso per capitoli, per offrire a tutti un momento culturale nella 'giornata on line'

La vera storia di Oscar Rafone: Parole che mi facevano paura (cap.21)

 

Quelli furono i tre giorni più belli della mia vita. Non so quanti anni vivrò ancora però sono sicuro che sarà molto difficile ritrovare dei momenti felici come quelli che trascorsi con Zamina e soprattutto trovare qualcuno come lei.

Ormai sono abbastanza grande per capire che nella vita ci sono cose che anche se ci piacciono e ci fanno stare bene, durano molto poco e nonostante gli sforzi che facciamo per tenercele strette, arriva il momento, prima o poi, — e , fateci caso, quando tenete veramente a qualcosa, quel momento arriva sempre piuttosto prima che poi — che ci sfuggono di mano e le perdiamo per sempre. Era successa la stessa cosa con mia madre. Io le volevo un bene pazzesco e pensavo che anche lei, come me, non dovesse mai morire, e invece... Tac, sparì improvvisamente. Era bastata quella caduta per le scale, quella sera che stava litigando con mio padre, e da allora non l'avevo mai più vista. Mi ricordo che all'inizio mi avevano raccontato che era stata ricoverata in ospedale, che era in coma e mi dicevano che io non potevo vederla perché ai bambini — avevo solo sei anni — non era consentito l'ingresso in rianimazione. Mio padre mi portò dai suoi genitori perché in quei giorni era troppo agitato per badare a me: ho vissuto con i miei nonni paterni fino al mio ottavo compleanno. Continuavo a chiedere di mia madre, ma le risposte erano sempre le stesse. "La prossima settimana la spostano di reparto e il mese prossimo la dimetteranno", mi dicevano tutti, ma io contavo i giorni, le settimane, i mesi e lei non tornava mai a casa. Fu così che a un certo punto capii che in realtà mia madre era già morta e che la sua vita continuava ormai a svolgersi — la vedevo guarire, sorridere, giocare con me — solo nella mia mente di bambino per il semplice fatto che nessuno degli adulti che avevo intorno trovava il coraggio o il tempo o chissà cos'altro, per dirmi la verità.

C'era un altro fatto che mi convinceva ogni giorno di più che le cose che i grandi cercavano di farmi credere erano false. Io, la sera che avevo visto la mia mamma per l'ultima volta me la ricordavo bene: il litigio tra lei e mio padre, il tavolo rovesciato, le polpettine schizzate sull'albero di natale e il ruzzolone della mamma per le scale. Eppure, una volta mia nonna e una volta mio nonno, altre volte tutti e due insieme, cercavano di convincermi che mamma e papà non litigavano mai e che quella sera stavano solo giocando. Mi facevano ripetere delle frasi a memoria per essere sicuri che se qualche signore mi avesse chiesto qualcosa riguardo a quella sera e al rapporto tra i miei genitori avrei saputo rispondere che papà voleva bene a mia madre e che non bisticciavano mai. In realtà non dovetti mai ripetere quelle parole a nessun signore e non seppi mai chi potesse essere quella misteriosa persona interessata ai fatti della mia famiglia, anche se ricordo chiaramente che in quel periodo due delle parole più ricorrenti nei bisbigli concitati tra i miei nonni, erano "giudice" e "processo". Pur non sapendo bene cosa significassero, ricordo ancora adesso che quelle parole, forse per il modo e le circostanze in cui venivano pronunciate, mi facevano paura.

 

Enzo Iorio

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