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Ventimiglia Vallecrosia Bordighera | 16 luglio 2016, 11:48

Le mansioni sul posto di lavoro: cosa occorre sapere per rispettare la legge

Il tema delle mansioni è stato uno degli aspetti toccati in maniera più incisiva dalla recente riforma del mercato del lavoro prevista dal Job's Act.

Le mansioni sul posto di lavoro: cosa occorre sapere per rispettare la legge

Il tema delle mansioni è stato uno degli aspetti toccati in maniera più incisiva dalla recente riforma del mercato del lavoro prevista dal Job's Act.
In linea generale possiamo considerare le mansioni del lavoratore come l'oggetto del contratto di lavoro, cioè l'insieme dei compiti che egli sarà chiamato a svolgere durante l'esecuzione della prestazione.
Tuttavia, riconducendo il discorso alla realtà pratica, si comprende come non sia sempre possibile per le parti specificare con precisione ogni azione che il lavoratore sarà chiamato a svolgere, sia pure in un contesto definito.
Proprio a tal proposito, la legge consente che l'oggetto del contratto non sia necessariamente determinato, ma almeno determinabile. Per questo spesso nei contratti di lavoro individuali troviamo un semplice richiamo alle declaratorie dei contratti collettivi, le quali, funzionando praticamente come una traccia, contengono tutta una serie di livelli a cui corrispondono determinate mansioni, descritte per ogni settore. Forti di questa premessa siamo ora più agevolati a comprendere il ruolo accordato dalla legge al datore di lavoro, che può conformare, attraverso l'esercizio del potere direttivo, l'esecuzione concreta delle mansioni secondo le specifiche esigenze del momento, pur sempre entro i confini sopra indicati.
Una ulteriore evoluzione del potere del datore di lavoro è rappresentata dallo Jus Variandi, che consentirebbe di modificare le mansioni del lavoratore anche rispetto agli stessi accordi iniziali.
Nuovamente, in questo caso si può ben comprendere la generica finalità di consentire di regolare avvenimenti che le parti non potrebbero conoscere o prevedere al momento della stipulazione del contratto.
Tuttavia, a  controbilanciare i legittimi interessi del datore di lavoro concorre il diritto del lavoratore a mantenere in modo costante un certo livello di professionalità raggiunto. L'idea sarebbe quella di non deprimere un individuo con una certa capacità attribuendolo a mansioni decisamente inferiori rispetto agli accordi iniziali.
Il panorama teorico appena esposto viene trasportato in termini reali attraverso l'art 2103 del Codice civile, modificato dai decreti attuativi del Job's Act.
Innanzi tutto si disciplina il concetto di mobilità orizzontale, che consente di attribuire al lavoratore delle mansioni diverse da quelle iniziali, purché corrispondenti allo stesso livello ed alla stessa categoria legale di inquadramento ( le categorie legali, ex art. 2095cc, dividono i lavoratori in quattro tipologie: dirigenti, quadri, impiegati, operai).
 Invece, la previgente disciplina limitava il ricorso a questo tipo di mobilità alle sole mansioni che, alla luce della professionalità del lavoratore, potessero considerarsi equivalenti.
Esiste poi il concetto di mobilità verticale, suddiviso tra mobilità verso l'alto e mobilità verso il basso.
La mobilità verso l'alto corrisponde alla possibilità di assegnare temporaneamente il lavoratore a mansioni di livello superiore a quelle per le quali è stato assunto. A questa corrisponde l'immediato diritto a percepire la corrispondente maggiore retribuzione e trascorsi 6 mesi (ante job’s act erano 3), o un diverso periodo indicato dalla contrattazione collettiva, la possibilità di acquisire il nuovo inquadramento in modo definitivo, salve alcune eccezioni (es. sostituzione lavoratori con diritto alla conservazione del posto).
Per converso, la mobilità verso il basso consente di adibire il lavoratore a mansioni gerarchicamente inferiori. In particolare, una delle modifiche più discusse all'art. 2103cc consente, nel caso di modifiche degli assetti organizzativi aziendali, di “declassare” il lavoratore alle mansioni contenute nel livello immediatamente sottostante a quello originario di inquadramento. Va comunque sottolineato che la modifica in parola non intacca la conservazione dei precedenti trattamenti economici e normativi, si tratta più di una modifica del contenuto materiale della prestazione.
Tuttavia l'aspetto più problematico, e che si distanzia maggiormente dalla precedente disciplina (più favorevole) è rappresentato dal c.d. Patto di declassamento, di cui al comma 6° dell'art. 2103.
Nell'ipotesi evocata possono essere stipulati degli accordi individuali che, in deroga a quanto detto finora, possono modificare sia il livello di inquadramento, anche oltre il limite del livello immediatamente inferiore; sia modificare la stessa categoria legale di appartenenza. In questo caso, per altro, si applicheranno i trattamenti economici e normativi previsti per il nuovo livello di inquadramento. In particolare tale prassi è consentita dalla legge quando ricorrano esigenze di salvaguardia dell'occupazione, interessi alla acquisizione di diversa professionalità oppure ricerche di un miglioramento delle condizioni di vita.
Visto il delicato oggetto di accordi come quello esposto, si richiede che questo tipo di patto venga stipulato in una sede protetta, cioè sotto la supervisione di un attore istituzionale (es. Sedi delle Direzioni Territoriali del lavoro) e con la possibilità di ricorrere all'assistenza delle organizzazioni sindacali.
Va sottolineato, in ultimo, che lo jus variandi del datore di lavoro ha consentito alla Giurisprudenza di irrigidire le procedure di licenziamento dei lavoratori.

In particolare, vista la possibilità riconosciuta al datore di lavoro di modificare i livelli di inquadramento, spesso si prevede che prima di licenziare un lavoratore si debba verificare se questi non sia impiegabile in altre mansioni, anche di livello inferiore, previo accordo, e con l'obiettivo di mantenere l'occupazione (tecnica del c.d. Repêchage).

Edoardo Crespi

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