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In Breve

LA VERA STORIA DI OSCAR RAFONE | 06 marzo 2016, 07:00

La vera storia di Oscar Rafone: forse leggevo per cullarmi (cap.2)

Pubblichiamo ogni domenica il libro di Enzo Iorio, suddiviso per capitoli, per offrire a tutti un momento culturale nella 'giornata on line'

La vera storia di Oscar Rafone: forse leggevo per cullarmi (cap.2)

Forse leggevo per cullarmi

Mi piace leggere. Non i libri di scuola, ovviamente, quelli non li sopporto. Mi piacciono le storie. Romanzi, racconti, belle storie insomma. Mia madre mi leggeva sempre qualcosa per farmi addormentare. Erano avventure di animali; tartarughe, orsetti, canguri oppure di bambini. A volte inventava lei. Spesso non c'era una fine ai suoi racconti. Ma a me piacevano lo stesso, anzi di più, perché poi avevo la possibilità di farli continuare a modo mio. Cosa che facevo soprattutto con certi personaggi; mi ci affezionavo talmente tanto che quando la loro storia era finita, continuavo a farli rivivere nella mia mente

Ero molto piccolo, però avevo già capito come funzionava tra i buoni e i cattivi e cioè che i buoni perdono molte battaglie ma vincono sempre le guerre. O, almeno, così mi sembrava.

Quando mia madre morì, le storie cessarono, perché non venne più nessuno a sedersi sul mio letto.

Tranne che per qualche racconto ascoltato all'asilo, con la maestra che doveva rispondere a troppe domande di troppi bambini, il grande libro delle mie storie si era chiuso e le sue pagine ingiallirono col tempo. Sembrava come se l'inchiostro con cui erano scritte sbiadisse giorno dopo giorno e la mia memoria non riuscisse più a tenere vivi i personaggi e le avventure che mi avevano appassionato ogni sera prima della buonanotte.

Fu solo quando appresi a leggere per conto mio che ritrovai a poco a poco i miei  protagonisti preferiti, le loro azioni e i conflitti che li coinvolgevano. Scoprii che si chiamavano eroi e che, si trattasse di un anatroccolo emarginato o di una bambina ebrea braccata dai nazisti, io stavo sempre dalla loro parte. Conobbi Pin, che giocava con la pistola e sparava ai ragni, navigai per il Mediterraneo in lungo e in largo con Ulisse e i suoi compagni, combattei la guerra dei bottoni, mi persi nelle gallerie del Missouri insieme a Tom e Becky, e fui ospite discreto del capitano Nemo.

Qualsiasi luogo avesse da offrirmi un buon libro, diventava per me un buon posto da frequentare. Con mio padre che faceva i turni di notte e in casa con me ci stava meno di un fiammifero ad accendere una candela, trascorrevo interi pomeriggi da solo nella polverosa biblioteca del mio paese o nello scantinato della parrocchia, dove decine di libri si accatastavano insieme ad abiti e mobili di cui la gente voleva disfarsi. Diventai quasi amico di un vecchio artista che mi prestava romanzi polizieschi e libri che parlavano di guerra.

Ogni volta che ritrovavo un buon libro, — quello giusto, lo chiamavo — mi appassionavo talmente tanto che riuscivo a estraniarmi completamente, dimenticando perfino di mangiare o dormire. Sarà perché in quasi tutte le belle storie sentivo di nuovo la voce di mia madre che raccontava. Gli occhi che leggevano erano i miei, a decifrare i caratteri sulla pagina ero io, eppure, mentre leggevo, mi scoprivo involontariamente a cercare di imitare delle inflessioni, dei suoni, dei colori che mi ero abituato a sentire da piccolo, ascoltando la mamma. Forse leggevo per cullarmi.

A scuola la mia passione per la lettura mi servì a poco o almeno solo a risparmiarmi qualche bocciatura. Non mi piaceva studiare e non sapevo starmene zitto e buono al mio posto; diventavo spesso insopportabile perché quando mi annoiavo a sentire cose che già sapevo, o credevo di sapere — il che succedeva numerose volte al giorno — distraevo anche i miei compagni o me ne uscivo con battute stupide e scherzi cretini che irritavano i prof. Solo se un argomento riusciva a interessarmi veramente, mi lasciavo coinvolgere e tiravo fuori osservazioni che alcuni insegnanti consideravano "argute" e le utilizzavano per convincere i loro colleghi a promuovermi.

A me, detto sinceramente, non importava più di tanto, se sulla pagella trovavo scritto "Ammesso" o "Non ammesso". Non avevo un obiettivo da raggiungere nella vita e crescere era una cosa che mi dava più fastidio che altro, poiché diventare grande significava solo dovermi allontanare da quella parte di Oscar—piccolo che era stato il periodo più bello della mia vita perché lo avevo trascorso con mia madre.

 

Enzo Iorio

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