'Il paradosso di Sanremo': ecco il nuovo racconto del nostro lettore Pierluigi Casalino

"L'enorme mise en scène" ordita da Sanremo nel nome dell'eccesso e dell'iperbole produce sempre qualche impressionante paradosso che porta a scontrarsi con il suo stesso limite, soprattutto oggi che siamo in tempo di crisi: ne emerge una sorta di inappagamento infinito e continuamente rievocato e rappresentato di volta in volta da questa o da quell'altra immagine della Città dei Fiori. Nelle giornate del Festival della Canzone è facile che si susseguano, per fare un esempio, molte di queste raffigurazioni che interagiscono con il resto dell'universo.

Lo diceva un incallito giocatore milanese, frequentatore al'inverosimile della casa da gioco e poi scomparso nel nulla come le sue vane speranze. Quante volte per Sanremo il tutto si traduce in un discorso volutamente ripetitivo e ossessivo che disegna e denuncia le rovine di un mondo immobile, ma ne esalta le stravaganze mai sopite. Si tratta di un "portrait imaginaire" che esprime forse un non senso, per dirla con un vecchio ufficiale insignito della Légion d'honneur, che talvolta piombava da Avignone il fine settimana alla ricerca del suo tempo perduto. Se Sanremo sopravvive a se stesso è anche per questo. Riscrive la sua storia ogni volta che qualcuno ha l'avventura di passare dalle sue parti e la racconta con le parole di questi scampoli d'umanità sempre più rari.

Conserva Sanremo il suo viso di pietra, allegoria inesauribile di un mito perennemente al tramonto, quasi come un implacabile testimone del suo tempo, di un tempo, cioè, senza fine e dei vizi di una modernità che non è più tale al pari di un ironico libertino uscito dalla penna di De Sade.