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Attualità | 17 novembre 2011, 21:14

Imperia: stage di educazione alla teatralità a 'La Fenice', lo scritto di una nostra lettrice

Imperia: stage di educazione alla teatralità a 'La Fenice', lo scritto di una nostra lettrice

Una nostra lettrice, Isabella Biscaglia, ci ha inviato un suo scritto, riguardante lo stage di educazione alla teatralità (11-12-13 novembre) tenutosi al Centro Studi La Fenice di Porto Maurizio (Imperia):

Primo giorno, primo minuto. Prima “3 giorni”. Sette persone, tutti adulti, assai diversi tra loro. Si conoscevano a gruppi di due o tre, e avevano l’espressione di chi sa di essersi infilato in un esperimento, e in qualche modo si compiace di non sapere minimamente cosa lo aspetti. Certo si saranno anche chiesti, in quel primo momento, se i loro soldi sarebbero stati spesi bene: di fatto, i più giovani del corso eravamo io, assistente, ed Emanuele Morandi del Teatro Impertinente. Proprio il professionista che ha tenuto il corso al Centro Studi La Fenice. In questa strana situazione cominciò la prima “3 giorni” di quella che promette essere una lunga serie. E continuò poi in modo ancor più singolare.

Per cominciare prendete queste persone adulte: chi lavora all’Anfas di Sanremo, chi si occupa di ragazzi difficili, chi è professore (non di ruolo) ad una scuola superiore o chi è “semplicemente” madre. Metteteli intorno ad un tavolo con un foglio, ma non un foglio di quelli normali. Un foglio strappato. Che sommato a dei pennarelli ha prodotto un gruppo di sette adulti intenti ad immaginare e disegnare in modo non dissimile a quello dei bimbi dell’asilo, ma a differenza loro senza il limite del foglio rettangolare o di “maestre” che non vogliono che colori la pelle arancione perché la pelle è rosa, chissà poi per quale legge divina. Bruno Munari insegna. Immaginate poi questi sette adulti-bimbi nelle varie giornate, ad esempio muoversi per una stanza irta di pericoli alla ricerca di una scatola contenente il proprio sogno, sulle note del “Peer Gynt” di Edvard Grieg. Oppure ancora a raccontarsi tra loro per poi interpretarsi vicendevolmente, o magari solo far finta di essere galline in un pollaio con un gatto che entra o ancora dei samurai in mezzo ad una battaglia campale oppure in una tribuna politica come rappresentanti di partiti più o meno probabili o anche…

È giocare? Certo. In inglese il dramma teatrale, misto di tragedia e commedia, è definito “play” che vuol dire anche giocare o suonare. In modo più fortunato, queste sette persone hanno avuto un direttore di gioco capace, un regista che ha saputo dirigere ben sette film in contemporanea. Un educatore alla teatralità, ossia un educatore al gioco. Molti adulti sono scettici riguardo alla parola “giocare”, o ancora alla locuzione “fare finta che”. Che questi scettici si confrontino con quelli che in tre giorni hanno re-imparato un poco a giocare: questi sette hanno meno fissazioni, maggiore capacità di relazionarsi, maggiori strumenti di espressione, più libertà. Nonché una bella e piacevolmente anomala esperienza alle spalle.

E questo perché lo hanno voluto loro, scegliendo di giocare e giocando fino in fondo. Basta poco per rendersi conto di quanto sia più complicato spiegare i perché del rifiuto a mettersi in gioco che non mettersi in gioco per il puro gusto di farlo, in un ambiente non giudicante quale quello creato da un educatore. Troppo ottimismo? Come si può non sentirsi soddisfatti d’aver aiutato ben sette persone a formarsi, o meglio, a s-formarsi per liberarsi di tutti quei limiti imposti dalla società “adulta”. E quale assistente vi assicuro che alcuni di quei sette soggetti non provenivano di certo da situazioni facili, affatto. Eppure hanno cominciato a vedere come liberarsi dei propri blocchi e dei propri timori, come cambiare prospettiva, come migliorarsi volta per volta da sé.

Hanno preso coscienza di poter educare, presto o tardi e con molta fatica, un mondo di scettici.

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