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Festival di Sanremo | 18 febbraio 2011, 22:18

L'arte musico pittorica di Alessandro Grazian a Casa Sanremo

L'arte musico pittorica di Alessandro Grazian a Casa Sanremo

Il progetto pittorico “Ritratti da Grazian” raggiunge la città di Sanremo, durante la settimana musicale più importante d’Italia. Da domenica 13 a giovedì 17 febbraio 2011, la Direzione Artistica della IV edizione di CASA SANREMO accoglie all’interno del prestigioso Grand Hotel Londra***, C.so Matuzia, 2, la mostra delle ultime pitture ad olio del cantautore Alessandro Grazian. La mostra è a cura di Raffaella Tenaglia, con testo critico di Andrea Dusio.

Biografia di Alessandro Grazian: Come musicista, dopo numerose esperienze in band e in progetti anche lontani dal mondo della canzone nel 2005 realizza il primo album, intitolato Caduto. In seguito al fortunato tour di promozione dell'album, Alessandro si dedica al teatro partecipando a diverse tournée teatrali in veste di musicista di scena. Nell'aprile 2008 esce in free download l'EP Soffio di Nero. Il mese successivo viene pubblicato Il Dono - Tributo ai Diaframma, compilation/tributo in cui Grazian partecipa reinterpretando "Fiore non sentirti sola". Il 16 ottobre 2008 esce il secondo nuovo album intitolato INDOSSAI. Il disco viene accolto bene da pubblico e critica e diventa disco della settimana su FAHRENHEIT di Radio Tre per poi entrare in programmazione su Radio Uno (tra gli ospiti Emidio Clementi dei Massimo Volume). All'uscita del nuovo disco parte subito un intenso tour di presentazione di oltre 60 date che tocca l'Italia dal Nord al Sud. Il 15 ottobre 2009 arriva l’Ep "L'abito", la nuova produzione discografica. Anche questo nuovo lavoro raccoglie da subito recensioni entusiastiche.

Il ritratto del critico Andrea Dusio: Ho conosciuto Alessandro Grazian quando per qualche mese abbiamo diviso gli spazi di casa mia. Lui era appena arrivato a Milano, io, che avevo ascoltato i suoi lavori ma non mi ero mai fermato a parlare con lui, avevo da poco finito di scrivere un libro su Caravaggio. La lente deformante con cui osservavo in quelle prime settimane di convivenza i suoi comportamenti era così quella del rapporto che stava cercando d’instaurare con l’ambiente milanese della musica indipendente. Visto da quel punto di vista, il tentativo di operare in un determinato contesto è per un artista sempre costituito da una serie di relazioni che definiscono il rapporto tra il “sistema” e il proprio lavoro. Ascoltare Alessandro che parlava di altri musicisti era per me particolarmente interessante. Da un lato, avevo lavorato anch’io nella discografia indipendente, ma come giornalista. Occupandomi, per così dire, del prodotto finale, e limitando il mio sguardo critico agli esiti, senza fermarmi troppo a ragionare sulla personalità dei diversi artisti. Dall’altro, avevo frequentato a lungo alcuni pittori, nella presunzione di individuare un metodo nella maniera di approcciare i problemi, una forma mentis attinente a un mestiere che per me resta sintomatico di un grande rigore etico.   I pittori si sono sempre ritratti vicendevolmente. Oggi siamo abituati a pensare che la qualità di un ritratto si stabilisca per la porzione di verità che contiene, una verità che spesso sconfina nel cinismo o, al contrario, in una forma di pietas. In realtà, la tradizione più alta del genere del ritratto ha più a che fare con il tentativo di mostrare la consapevolezza peculiare che ciascun soggetto rappresentato ha della propria posizione nel mondo. Il ritratto non è come ci vedono gli altri. Né come ci vediamo noi. È come noi pensiamo di essere visti dagli altri, e come reagiamo a questo fascio di percezioni, provando a  nostra volta a riposizionarci, in maniera di confermare o disattendere quell’impressione. Per il pittore si tratta dunque di ribaltare lo sguardo, e mettersi davanti allo specchio, un attimo dopo essersi infilato nei panni del personaggio raffigurato. Ci piace o no quello che lo specchio rimanda? C’è una vecchia canzone dei Depeche Mode, intitolata “Walking in my shoes”. Credo che fare un ritratto somigli molto all’idea di camminare con le scarpe di qualcun altro, di accettare la sfida a farlo, sapendo che ci troveremo male. Anche e soprattutto se somigliano alle nostre.   Mi piace pensare che esista una simmetria tra come io ho osservato Alessandro in quei mesi e i suoi ritratti. Ogni mondo autoreferenziale, e la musica indipendente italiana non fa eccezione, è strutturato sulla persistenza di alcune figure archetipiche. C’è però uno scarto rispetto al modello invariabile, e quello scarto è già una prima definizione della personalità. In qualche caso, credo che la messa a fuoco di una persona proceda proprio da questo scostamento, dalla constatazione del fatto che l’immagine pubblica è come un vetro soffiato appena estratto dalla fornace. Per arrivare al ritratto bisogna farlo raffreddare, giungere a una certa rigidità. Una rigidità che ha a che fare ancora una volta con il rigore, e che spesso il soggetto rappresentato fugge istintivamente, con la stessa mobilità della preda di fronte al cacciatore. Chi conosceva i tratti androgini dei dipinti precedenti di Alessandro, come di un’umanità appena sbozzata, non portata sino alle estreme conseguenze, si stupirà forse dell’ineluttabilità e dell’arrendevolezza con cui alcuni dei suoi nuovi ritratti si offrono all’osservatore. Non per un fatto di stile, ma per una questione di attitudine, si potrebbe definirli iperrealisti. Non c’è intento fotografico, ma è comunque chiaro che il tentativo è consegnare dei personaggi senza filtro. E il carattere profondamente umano di questa galleria di volti è che qualche volta Alessandro ce l’ha fatta ad arrivare sino in fondo, a mettere a nudo gli occhi dei suoi soggetti. In altri casi si è fermato prima, ha preferito conservare una distanza, una forma di approssimazione che si pone come un’ipotesi, non vuole dire sino in fondo, perché è consapevole dello scollamento tra il proprio sguardo e quello dell’artista rappresentato.   In qualche misura, questa serie di ritratti costituisce così una forma paradossale di autoritratto, il grado zero della condivisione di un’esperienza. La musica indipendente ha molto a che fare con l’incarnazione o, più semplicemente, con lo scambio dei ruoli. L’artista è il pubblico, il pubblico è l’artista, le modalità relazionali sono circolari. C’è chi sceglie di calcare sui meccanismi d’identificazione e chi invece alza una barriera. Chi conosce Alessandro sa dove cade la sua simpatia, dove la sua sensibilità trova delle corrispondenze. E in definitiva, per la porzione di narcisismo che è consustanziale alla cifra di chi decide di militare in una forma d’arte sotterranea e marginale, tutti questi ritratti sembrano fissare ostinatamente chi li ha fatti. In qualche caso con una nota evidente di affettività, celata sotto il formalismo apparente della foto tessera. In altri, con lo stesso sguardo algido degli angeli imprigionati nelle vetrate delle cattedrali. Attraverso i visi di Vasco Brondi, Enrico Gabrielli, Pierpaolo Capovilla, Alessandro Grazian ha trovato qualcosa di più che la propria posizione rispetto a un sistema di riferimenti, e cioè la sicurezza che ogni posizione è appunto solo una distanza.

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