E' stato appena dato alle stampe il nuovo libro di Rinangelo Paglieri e Nadia Pazzini ROMA: NEL CHIOSTRO DEL BRAMANTE. L’archivolto negato. La (ri)scoperta del metodo. E' un coraggioso e intenso viaggio contro corrente nella vera architettura che fornisce le basi sicure per la progettazione architettonica contemporanea.
E’ un saggio sulla storia del fare architettura che dall’analisi delle opere del passato fa riscoprire il metodo per una corretta progettazione, ossia realizzare “vere architetture” capaci di far nascere “in noi quell’emozione estetica che, essendo fatto spirituale, esprime il senso umano dell’architettura”
Il libro è suddiviso in tre capitoli preceduti da una premessa e seguiti da una postfazione. I capitoli sono stati concepiti secondo la logica dell’opera architettonica che si esplicita nella base di appoggio, nell’elevazione, che è maggiormente percepibile e perciò è stata suddivisa in due parti, e infine nella definizione volumetrica a conclusione dell’individuo progettato.
Il testo è ricco di note usate non tanto per approfondire il discorso ma essenzialmente sia per citare le fonti sia per dovere morale nei confronti degli autori di quegli scritti scientifici e non ai quali Paglieri e Pazzini hanno attinto e dei quali si sono serviti ora per avvalorare le proprie tesi ora per confutare le loro, tutto comunque senza lo spirito di animosità che oggi si riscontra assai di frequente.
Il libro fa parte della collana editoriale di Ennepilibri denominata npl-i grandi temi dell’architettura e si compone di 198 pagine, con prezzo di copertina di euro 14.90. Può essere acquistato direttamente tramite il sito www.ennepilibri.it o con e-mail ennepilibri@tin.it senza aggravi sul prezzo di copertina delle spese postali, oppure presso qualsiasi libreria che ne faccia richiesta alla casa editrice. Gli studenti universitari usufruiscono di uno sconto speciale del 20% se richiedono il testo direttamente a Ennepilibri.
Essendo un libro sulla storia del fare architettura a 360° coinvolge non solo l'architettura del passato ma anche quella della presente come si evince dalla Postfazione che si riporta:
"Al Bramante dunque abbiamo riconosciuto il merito di aver (ri)scoperto il metodo della progettazione architettonica per eccellenza come è quella classica, la sola capace di fondere nella sua totalità il fare singolo come espressione di quello collettivo. Un metodo progettuale, quello bramantesco, quindi sempre attuale perché basato sul ragionamento del fare secondo natura e perciò applicabile nel pieno rispetto dei vincoli imposti dalle leggi naturali, dai materiali e dalla statica tradizionale, in cui arte e tecnica sono un tutt’uno che si manifesta nella creatività, nell’originalità e nell’espressione dell’opera d’arte realizzata. Un procedere per gradi che tuttavia non si può racchiudere in schemi prestabiliti perché ogni opera richiede in relazione ai gradi di difficoltà affrontati soluzioni specifiche ma coerenti tra loro e con il tutto e perciò sempre diverse, come speriamo di essere riusciti a dimostrare nel corso di questo assunto.
Architetture, quelle rinascimentali, che sanno trasmettere in noi vere emozioni perché in esse riconosciamo, al di là della loro reale qualità espressiva, quei valori che sono radicati in noi stessi e che si trasmutano nelle loro peculiari forme plastiche.
Dunque il Rinascimento non è stato solo il punto di arrivo della nostra civiltà ma è anche il ponte verso il futuro e che dovrà comunque essere superato per consentire lo sviluppo dell’architettura, specchio della civiltà. Ma per riuscire in ciò non possiamo dimenticare il fare coerente, consapevole; dobbiamo (ri)guardare al nostro passato con consapevolezza nuova, tutti uniti nel recupero di quella centralità del rapporto uomo-natura che è stato alla base della rinascenza sebbene la società in cui viviamo tenda ormai unilateralmente al virtuale, ad un immaginario collettivo distorto che ben si rispecchia nelle attuali costruzioni che, anche per effetto del fenomeno della globalizzazione, a partire dal 1980, non possono più comunicare quei valori positivi propri di un vero fare collettivo, quindi universale.
In questi ultimi decenni sono state cercate soluzioni appariscenti, anzi strabilianti, e c’è stato chi, come Renzo Piano e Richard Rogers, con l’avvallo del mondo ufficiale internazionale, che ha pensato bene di inventarsi un “linguaggio nuovo”, personale, fantasioso, ma non troppo, con l’esilirante ma sarebbe meglio dire raccapricciante impiego dell’impiantistica a vista. Ci riferiamo ovviamente al Centre Georges Pompidou (1970/78), essendo stato elevato arbitrariamente a modello del nuovo, per aver affidato agli apparati tecnologici, soggetti precocemente all’usura del tempo e destinati ad essere nella loro funzione ben presto superati, il compito di destare in noi forzata meraviglia tanto da farlo assurgere a simbolo del “nuovo”, infatti, è stato posto dalla critica come manifesto dell’architettura high-tech la quale ha rivoluzionato, ma secondo noi in negativo, il modo di progettare contemporaneo, peraltro manchevole già di per sé di quei contenuti espressivi in cui la società tutta si riconosce. Da allora semplici tubi, sebbene sapientemente colorati da mani esperte con vernici speciali, e disposti ad “arte” all’intorno del Centre Georges Pompidou hanno spazzato via quel poco che ancora rimaneva del linguaggio architettonico.
Dopo di allora, anche per effetto della globalizzazione, che si prefigge di annullare l’identità dei popoli, vediamo solo edifici ignobili, miserandi e stucchevoli che ci lasciano interdetti quando appaiono agli occhi, opere frutto di una libertà creativa tanto inconcludente quanto dannosa alla società tutta come il Guggenheim Museum di Bilbao (1997) e l’ancor più traumatizzante Stata Building al Massachusetts Institute of Technology (2004). Essi, con molti altri, sono stati elevati da pseudocritici a simboli del panorama architettonico contemporaneo benché di fatto siano frutto di operazioni forzatamente innaturali perché esasperatamente soggettive e tecnicistiche e quindi rivolte contro l’uomo stesso il quale, essendo diventato nel contempo solo fruitore passivo, non può più partecipare come co-protagonista all’atto progettuale. Le conseguenze sono gravissime e sotto gli occhi di tutti: il fare architettura non essendo più un atto collettivo riconosciuto ha prodotto e continuerà a farlo, se non invertiamo la rotta, opere sterili, inutili, anzi dannose che comunque non possono far nascere in noi vere emozioni come l’architettura sa fare.
D’altronde la critica d’oggigiorno perseguendo, come finalità principale, l’esaltazione estremizzata della figura dell’artista, più consona al suo modo di intendere l’arte tout-cour, tralascia di considerare l’architettura come fenomeno essenziale della nostra vita e della società. Non a caso è stato coniato il termine “archistar” che se ben si adatta a progettisti d’oltre oceano (figli naturali del tecnicismo più esasperato, che però cambia in ogni istante della nostra vita secondo logiche unilaterali in quanto solo economiche) perché sprovvisti di quell’identità profonda che lega ancestralmente e in simbiosi l’uomo-artista alla cultura occidentale. Questa definizione può trasformarsi in un pericoloso tam-tam perché si diffondono nella nostra società aspetti solo parziali e settoriali in cui non ci possiamo riconoscere per la mancanza di quei valori essenziali propri del fare architettura consapevole. E poco importa se, nel momento in cui scriviamo, la Triennale di Milano si inchina al “genio” dell’architetto canadese Frank O. Gehry, autore del già ricordato Guggenheim Museum di Bilbao, in quanto frivola vetrina di un mondo solo velleitario, proprio perché come sostiene Alessandro Mendini, sulle pagine del Corriere della Sera, siamo di fronte alle forme del futuro. Ben sappiamo però che l’architettura non è solo forma ma essa è fatta soprattutto di valori e contenuti universali e perciò espressione del fare collettivo in quanto espressione della società del suo tempo.
Comunque questo atteggiamento di elevare ad onori e fama particolari personaggi a discapito di altri si riscontrava anche nell’antichità perché come ci ricorda Vitruvio molti ottenevano fama e ricchezze solo lavorando d’audacia. Né possiamo aspettarci più di tanto da quei progettisti contemporanei come David Chipperfield che si richiamano agli stilemi del classico poiché non conoscendo il metodo progettuale antico basato sulla coerenza del fare non possono generare opere intrise di quel sentimento comune a noi tutti.
Oggi quindi vengono realizzate solo delle “cose”, spesso deformi, che si propongono a noi come alluncinati contenitori e pertanto completamente privi di quell’energia vitale che deve sprigionare dalla vera opera d’arte quale conseguenza del millenario processo creativo della coerenza iniziato con gli ordini architettonici, -trasposizione prima mentale e poi plastica del nostro essere natura, dell’essere parte del mondo- introdotti dai Greci, i padri riconosciuti, a scala ecumenica, della nascita dell’architettura e quindi della nostra civiltà.
E per rimanere coerenti al nostro discorso, non possiamo condividere quanto scrive Eugenio La Rocca4 a quel tempo Sovraintendente ai Beni Culturali del Comune di Roma a proposito della nuova Teca-Museo dell’Ara Pacis, opera dell’architetto statunitense Richard Meier. Egli ritiene cosa ovvia che il progetto sia stato criticato anche dalla stessa cittadinanza in quanto è sua convinzione che nessuna architettura contemporanea possa essere esente da critiche, fatta com’è per rompere con la tradizione. Infatti la vista ha bisogno di tempo per adeguarsi, in quanto non fa proprie in tempi brevi le novità architettoniche contemporanee inserite in contesti urbani come è quello della zona di piazza Augusto Imperatore: secondo lo studioso, un consenso immediato su eventi del genere è impossibile.
Dicevamo, dunque, che non possiamo condividere questa decisa affermazione, anche se la rispettiamo come tale, perché un’architettura se è vera non deve rompere con la tradizione, ma anzi deve essere il suo conseguente sviluppo.
La tradizione, infatti, è espressione della nostra stessa identità di popolo latino, quella stessa identità tramandataci dall’Ara Pacis (13 a.C.), e che noi dobbiamo e vogliamo trasmettere ai posteri nel miglior modo possibile. Sì, una forte identità la nostra, perché sgorga dal cuore di Roma antica; perché è insita in noi stessi, figli legittimi di quella civiltà universale che ha plasmato il mondo occidentale e che non può essere condivisa, con la stessa intensità emotiva, con un progettista americano come il Meier per quanto sensibile e capace nella sua professione. In ogni caso la vera architettura, come abbiamo più volte ricordato se è veramente tale deve far nascere in noi un’emozione estetica spontanea, immediata perché ci riconosciamo in essa in quanto ci appartiene.
Sappiamo, infine, che lo scopo dello scavo archeologico è quello di recuperare la memoria per mantenere viva la tradizione: le opere d’arte, infatti, non muoiono mai, sono sempre vive, pertanto, ci trasmettono valori universali, quindi positivi che modificano in meglio la nostra esistenza.
Guai a recidere il cordone ombelicale che ci lega alla tradizione, se ciò avvenisse la nostra civiltà non avrebbe veramente più futuro.
Possiamo quindi senz’altro sostenere che un’architettura che si allontana dalla tradizione non può essere opera d’arte ma affinché essa possa diventare vera espressione del nostro tempo deve mantenere vive le sue fonti creative impregnate del fare classico e perciò essere interpreti dell’umanità perenne, originariamente personale e universale in quanto l’architettura è il modello, perché è l’uomo che ha capito se stesso nel mondo (ancora da Saverio Muratori)."